Le politiche culturali messe in atto in Italia, negli ultimi decenni, sembrano fare inevitabilmente riferimento a modelli che, invece, nascono in realtà con caratteristiche peculiari assai differenti. Questo trend può essere riassunto, certo con una dose di semplificazione ed approssimazione, come caratterizzato dalla concentrazione – nello spazio e nel tempo.
In altri termini, questa tendenza si manifesta nel concentrare l’attenzione (e gli investimenti) su alcuni poli di grande attrazione, siano essi musei, aree archeologiche o centri storici, e su alcuni grandi eventi, siano esse mostre, esposizioni o altre manifestazioni culturali. Naturalmente, in questo c’è anche un naturale assecondarsi dei flussi turistici spontanei: va da sè che vi sono luoghi che, per la propria notorietà ed eccezionalità, hanno un potere attrattivo considerevolmente maggiore di altri, fungendo quindi da catalizzatori di tali flussi.
Ne consegue un’alta redditività di questi poli, che quindi a sua volta contribuisce ad accentuare su di essi l’attenzione pubblica.
E qui intanto emerge anche un’altra questione, relativa alla gestione del patrimonio culturale italiano, e cioè la sua considerazione prevalente – se non esclusiva – come attrattore turistico (e quindi fonte di reddito, diretto o indiretto), e non più – se non marginalmente – come elemento costitutivo dell’identità culturale, della sua formazione così come della sua trasmissione generazionale.
A ciò si aggiunga che, non di rado, alcuni di questi grandi attrattori (è il caso, ad esempio, del Colosseo e degli Uffizi), sono in mano a strutture private che ne gestiscono lo sbigliettamento, girando alle casse pubbliche solo una parte dei proventi. Questo tipo di approccio, che vede nei beni artistici e culturali un patrimonio di valore economico (il famoso “petrolio dell’Italia”), condiziona profondamente tutta la filosofia che sta a monte delle politiche culturali, siano esse nazionali o locali. É la ragione per cui si preferiscono le mostre blockbuster, persino quando sono organizzate interamente con fondi pubblici e non prevedono costi d’ingresso, perchè prevale la logica quantitativa, l’importante è fare grandi numeri, indipendentemente dal fatto che – ai visitatori – rimanga qualcosa di più d’una fugace visione. O, per altri versi, la ragione per cui sono così forti le resistenze ad impedire il passaggio delle grandi navi nella laguna di Venezia.
Sentiamo continuamente paragonare i musei italiani al Louvre, al British Museum, al Reina Sofia o al MoMa, e questi paragoni vengono fatti sulla base di parametri quantitativi – quanti visitatori annui, quanto reddito producono, quanti fondi pubblici ricevono, etc. Senza mai porsi interrogativi di tipo qualitativo – quali collezioni contengono, come (e quanto) investono in studio e ricerca, come si relazionano al territorio, etc. Il parallelo tra Louvre ed Uffizi, ad esempio, è del tutto improprio, benché siano i musei più visitati dei rispettivi paesi. Non solo perchè gli Uffizi hanno una cubatura infinitamente più piccola di quella del Louvre, ma perchè la stessa capacità di accoglienza di Firenze, anche appunto in termini di superficie, è lontanissima da quella di Parigi. Per tacere, ovviamente, di tutti gli aspetti logistici e strutturali.
La questione delle questioni, quindi, è in realtà la peculiarità del nostro paese. La cui caratteristica principale è precisamente quella di essere caratterizzato da una presenza diffusa di beni artistici e culturali, quale non si riscontra praticamente in alcun altro paese al mondo; quantomeno, non con questa densità e capillarità.
Dovremmo quindi rovesciare il paradigma dominante, per di più spesso mal gestito persino nella logica di concentrazione/massimizzazione, e lavorare al riorientamento del sistema culturale nazionale, proprio a partire dall’idea di assecondare la diffusione di questo patrimonio, per sua natura centrifuga, piuttosto che quella dei flussi turistici, che come si è detto rispondono invece a logiche centripete.
Quando, per restare a temi di attualità, in vista di EXPO 2015 si susseguono idee e proposte mirate a spostare su Milano capolavori da ogni parte d’Italia – siano essi i Bronzi di Riace dalla Calabria o le Sette Opere di Misericordia del Caravaggio da Napoli – si ragiona appunto in termini concentrativi: ovvero come (e cosa) portare sui luoghi dell’EXPO che ne accresca il potenziale attrattivo. Quando invece si dovrebbe ragionare in termini opposti, distributivi: come indurre i visitatori dell’EXPO ad andare a vedere altri luoghi d’Italia, ricchi di arte, di storia e di cultura. In tal modo, oltretutto, non solo si otterrebbe l’effetto di decongestionare i poli attrattori (Milano per l’EXPO, ma anche, più in generale, Firenze, Venezia, Roma…), con positive ricadute sulla qualità della vita in quei centri, ma si otterrebbe anche una naturale distribuzione delle ricadute economiche, stimolando l’economia in modo più diffuso ed uniforme.
Inoltre, e non da meno, si aumenterebbe anche la possibilità di valorizzazione di un’altra ricchezza del paese, il paesaggio.
Questo rovesciamento prospettico, richiede ovviamente (anche) un ripensamento profondo del paese nel suo insieme, un suo riorientamento generale, che persegua appunto l’obiettivo di invertire la logica centripeta (spostamento verso i grandi centri abitati, creazione di megalopoli per l’accorpamento progressivo delle grandi città con i comuni limitrofi, abbandono e desertificazione delle aree rurali). E che comporta a sua volta un riorientamento anche degli investimenti strutturali, in funzione – ad esempio – del trasporto su ferro piuttosto che su gomma, e di quello ad alta frequentazione piuttosto che di quello ad alta velocità. Che richiede un forte investimento strutturale nella banda larga ed ultra larga. Che presuppone anche investimenti in ricerca e sviluppo, in particolare nel settore delle nuove tecnologie, da applicare poi ai settori della conservazione, della tutela e della valorizzazione dei beni artistici e culturali.
Un paese che viva di solo turismo non è soltanto economicamente impensabile, ma anche insostenibile sotto il profilo della qualità della vita dei suoi cittadini. Però una valorizzazione intelligente del patrimonio culturale, che tenga conto della sua diffusione uniforme sul territorio e ne faccia elemento fondamentale, può contribuire ad una crescita economica distribuita più equamente, ad una preservazione del valore (non economico) che questo patrimonio ha innanzitutto per chi abita sui territori, alla difesa del paesaggio.
Guardare alle politiche culturali con una prospettiva diversa è, in ultima analisi, un modo per arrivare ad un diverso modello di sviluppo del paese. Tra le due cose vi è un nesso inscindibile e non occasionale. E dunque, nel momento in cui si vuole ripensare il sistema paese, sarebbe opportuno riflettere sulla direzione in cui si vuole avviarlo. A partire proprio dal sistema culturale; che, più di ogni altra cosa, può facilmente rammentarci che l’economia è uno strumento, non lo strumento. Men che meno il fine.
autore: Enrico Tomaselli