Esiste un modo di fare rock’n’roll “discreto”, ossia non deflagrante come si è abituati a chiedere alla regina della pop music degli ultimi 50 anni? E se sì, ha un senso vista l’agguerrita concorrenza dei mille e uno fabbricanti di riff sparpagliati per il globo? Fioccano, e continuerano a fioccare interrogativi dalla firma che leggerete in fondo, ma d’altra parte una recensione – onde far sì che ognuna non sia una realtà del tutto separata dalle altre – serve anche a questo.
E intanto a fioccare sono anche gli ascolti di questo omonimo debut album del side-project solista di Stephen McBean, impegnato un tempo nelle file dei Jerk With A Bomb e oggi in quelle dei Black Mountain (il cui imminente album, anch’esso omonimo, avrà la stessa copertina – depurata, presumo, del color rosa – di quello adesso in discussione). Una sorta di training necessario per addentrarsi in un disco che, a partire dal rock, quello vero, intraprende percorsi sbilenchi al punto da fornire una lettura che del rock può definirsi leggera o, appunto, “discreta”, non per debolezza intepretativa, ma per una sorta di insolitamente profonda intromissione nei luoghi “delicati” del sentire.
A ciò va aggiunta un’altra postilla: McBean non ha assolutamente la voce del rocker. Se ci fosse dato saperlo, potremmo dire, anziché semplicemente sospettare, che non ne abbia neanche il carisma. Ad ogni modo le sue corde vocali non graffiano, ma è proprio questa peculiarità, oltre ai bassi volumi, a rendere singolare questo disco, che, per quanto concerne tutto il resto, del rock, a pieno titolo, parla la lingua. Ed è anche un rock feroce, sanguigno, nell’abrasivo boogie di ‘Can You Do That Dance?’ o ancor più in ‘Sweet 69’, in cui, ad “americanizzare” la partita in senso marcatamente southern-blues, entra in gioco anche un’armonica. Ma più complessa, e difficilmente decifrabile, è la pasta di “Pink Mountaintops”.
D’altra anche i grandi “rocker” a cavallo di 60 e 70 amavano interporre alla loro giovanilistica furia rivoluzionaria episodi rilassati, a volte malinconici, anche se coerenti al ribolllire del rock se non per l’analoga rispondenza all’esigenza di “dire tutto”, duro o morbido che fosse. Ed ecco allora gli intimi crepuscoli tardo (in quel contesto)-psichedelici di ‘I (Fuck) Mountains’ e il languore romantico di ‘Rock’n’Roll Fantasy’, ma anche, a un’ideale metà strada, la lisergica ode di ‘Leslie’ e il jingle-jangle di ‘Tourist in Your Town’ (in cui McBean duetta con Amber Webber, sorta di quasi-novella-Joan-Baez).
E come se non bastasse tutto ciò a fare di “Pink Mountaintops”, ecco in chiusura l’apposizione di un ulteriore tassello al mosaico rock di McBean, quella ‘Atmosphere’ dei Joy Division che, resa come altrimenti non avrebbero potuto fare i Velvet Underground (il suono della chitarra non ricorda quello di Lou Reed – è, definitivamente, quello), realizza non solo una magnifica trasposizione stilistica ma anche, se siamo in vena di suggestioni, un ideale ponte tra due concezioni diverse dell’estetica “decadente”. Prima che il passare inosservati diventi, per questo disco, una sentenza definitiva di condanna all’insuccesso…
Autore: Bob Villani