“We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep” (Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita), recita Prospero nella celebre “La Tempesta” di William Shakespeare.
Quando ero adolescente, nel vedere (in video ovviamente) i Pink Floyd suonare dal vivo nell’Anfiteatro di Pompei, ho sognato … sognato di assistere a quello spettacolo, di esserci dentro … con il nascosto rimpianto della mia assenza. Lo percepivo come un evento unico, complice lo scenario fatto delle secolari pietre vittime del Vesuvio. L’estate scorsa, poi, come per un felice gioco del destino, in quello stesso Anfiteatro ho assistito al concerto dei King Crimson (che non nascondo essere, ben più dei Pink Floyd, da me amati). Ho così, da adulto, sebbene con un po’ di disincanto dato dall’età, vissuto un sogno della mia breve vita.
In vero, il concerto dei King Crimson non doveva tenersi presso l’Anfiteatro, bensì nell’altrettanto antico e splendido Teatro Grande … teatro che è oramai casa della rassegna estiva del Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Pompeii Theatrum Mundi, realizzata con il Parco Archeologico di Pompei in coproduzione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival.
E proprio ieri, l’opera teatrale “La Tempesta” di William Shakespeare, nella traduzione di Gianni Garrera e per la regia di Luca De Fusco, ha aperto l’edizione 2019 della detta rassegna.
La mia esperienza a teatro con “La Tempesta” fu stata segnata, nel 1998, dalla rappresentazione di Glauco Mari e non nego che se da un lato ne restai affascinato, dall’altro ne patii un po’ la “pesantezza”, ma l’entusiasmo giovanile e l’ostinata ricerca a quell’età di “estremismi” mi rese “giusto” anche il perdermi in quel “pelago”.
Diverse invece le sensazioni per “La Tempesta” di De Fusco.
Il regista, nella sua rivisitazione, ha infatti mediato e riequilibrato la rappresentazione liberandola dal tradizionale peso, pur mantenendone gli essenziali elementi narrativi e concettuali nonché l’aristocratica espressione da terra di Albione; merito di ciò l’interpretazione “vocale” di un fermo e solido Eros Pagni nel ruolo di Prospero e l’impeccabile e istrionica duplice veste da Giano Bifronte di Gaia Aprea nel doppio ruolo di Calibano e Ariel.
Perplessità rimane, però, per una contrazione dei cinque atti originari in un unico atto che se ha reso la fruizione del tutto di indubbio piacere, senza amnesie per l’attenzione, ha eccessivamente castrato lo sviluppo di personaggi e accadimenti quali (ad esempio) l’innamoramento di Miranda (interpretata da Silvia Biancalana) e Ferdinado (interpretato da Gianluca Musiudi) o la capitolazione del “complotto” ordito da Calibano, Trinculo (interpretato da Alfonso Postiglione) e Stefano (interpretato da Gennaro Di Biase).
Altra perplessità risiede, poi, nella (forse) troppo caricaturale interpretazione proprio di Trinculo e Stefano, troppo prossimi a Razzullo e Sarchiapone della Cantata dei Pastori di Roberto De Simone. Ma c’è da dire che il pubblico ne ha apprezzato lo stile, atteso che i due hanno (comunque) spezzato la tensione misterico – emotiva da brughiera per calcare sentieri da volg(o)are trivio nostrano d’osteria.
Con i già citati attori/personaggi, Alessandro Balletta nel ruolo di Francisco, Paolo Cresta in quello di Sebastiano, Paolo Serra in quello di Antonio, Alessandra Pacifico Griffini in quello di Giunone, Carlo Sciaccaluga in quello di Alonso, Francesco Scolaro in quello di Adriano ed Enzo Turrin in quello di Gonzalo.
Oltre ad essi, personaggio necessario, aggiunto alla compagnia, con un ruolo (quasi) di coprotagonista, sono state tutte in uno le scene, le luci, le musiche, le coreografie, le installazioni video e i costumi (le scene e i costumi a cura di Marta Crisolini Malatesta; il disegno luci di Gigi Saccomandi; le musiche originali di Ran Bagno, le coreografie di Emio Greco e Pieter C. Scholten, le installazioni video di Alessandro Papa).
E così, mentre le musiche, con contemporanea didascalia, hanno narrato la storia come se fosse stato un recitato di suoni tanto descrittivi quanto d’ambientazione e di onomatopeia (su tutti l’avanguardia nella tempesta di apertura), la grotta/biblioteca ha, poi, reso lo scenario vivo. Con trovate di luci, immagini, proiezioni, figlie delle macchine di un teatro quasi dell’assurdo, come in un romanzo animato, dissolvenze magiche e oniriche hanno mutato in pinacoteche alla René Magrit, alla Marc Chagall … sino a sprofondare … a fondo e spegnersi nel malestrom finale celebre Epilogo di Prospero:
“Ora i miei incantesimi
Si sono tutti spenti,
La forza che possiedo
È solo mia, ed è poca.
Ora sta a voi
Tenermi qui confinato
O mandarmi a Napoli.
Poiché ho riavuto il Ducato
E perdonato il traditore,
Non fatemi rimanere
Col vostro potere
In quest’isola nuda,
Ma scioglietemi da ogni legame
Con mani generose.
Il vostro fiato gentile
Colmi le mie vele
Altrimenti fallisce
Il mio progetto
Che era di dar piacere.
Ora mi mancano
Spiriti da comandare,
Arte per incantare,
E la mia fine
È la disperazione,
A meno che
Non sia salvato dalla preghiera
Che va tanto a fondo
Da vincere la pietà
E liberare dal peccato.
Come voi per ogni colpa
Implorate il perdono,
Così la vostra indulgenza
Metta me in libertà”
I libri e le loro pagine, strappate e giocate, hanno invece descritto gli stati emotivi dei personaggi (basti pensare alla surreale partita a tennis tra Miranda e Ferdinando in stile Blow-Up), mentre l’atemporalità da “biblioteca mediatica” è stata vestita dai costumi occidentali di diverse epoche.
Lo stesso, non a caso, De Fusco descrive la sua Tempesta citando anche René Girard: «Cosa è questa “tempesta” che Prospero scatena e interrompe a suo piacimento, e che non causa danno alcuno? Si tratta evidentemente di une tempête sous un crâne, come direbbe Victor Hugo – quella di Prospero, un’opera di pura (o impura) immaginazione, la stessa opera teatrale cui noi assistiamo. Essa ha solo un effetto, quello di condurre tutti i nemici di Prospero sotto la sua ferula, nell’unico posto dove tutti i suoi desideri sono immediatamente appagati, la sua isola, il suo universo, quello della creazione letteraria. È ciò che ogni scrittore può fare a volontà – trasformare i propri nemici in personaggi della propria opera letteraria, dove può castigarli come meglio crede. La natura immaginaria della vendetta di Prospero appare con evidenza alla fine dell’opera, nell’assenza stessa di una conclusione. Antonio non si umilia davanti al fratello; la vendetta letteraria di Prospero si dissolve in fumo» (René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia). Eros Pagni sarà quindi un mago chiuso nel suo luogo di studio e riflessione che si trasfigura con giochi di allucinazioni creando un’isola che non c’è. Tutto è nella testa del mago, compresi Ariel e Calibano, che divengono in questa lettura una sorta di Jekyll e Hyde. Ecco perché la scena della Tempesta è una citazione della biblioteca mediatica del protagonista, ecco perché i suoi avversari si presentano con abiti delle più svariate epoche, essendo nient’altro che citazioni della cultura occidentale, l’unica esperienza che questo intellettuale agorafobico abbia avuto nella sua vita. Dopo aver pensato questo personaggio di grande cultura, di grande capacità immaginativa e che mi figuro da sempre immerso nei suoi libri, mi sono reso conto che il mio Prospero altri non era che mio padre, Renato De Fusco, emerito storico dell’architettura che, dal chiuso della sua biblioteca, ha raccontato, in decine di opere, edifici in gran parte dei quali non è mai stato, ma che ha avuto la capacità visionaria d’immaginare. È per questo che gli dedico questa mia regia in occasione dei suoi novant’anni”.
di Marco Sica
foto di Fabio Donato