Gli strumenti dei Los Lobos (tutt’altro che indimenticabile il loro set di apertura) vengono portati via in tutta fretta, mentre sul palco salgono dei figuranti vestiti da scienziati pazzi (?!), che fingono di confabulare animatamente ai piedi di giganteschi flight case (le custodie rigide con cui si trasportano gli strumenti) scenografici, alti almeno quattro metri. Le luci si spengono, parte “A day in the life” dei Beatles e i flight case sono lentamente scoperchiati. Adesso sul palco ci sono quattro finti amplificatori mastodontici (che nascondono al loro interno quelli veri) e dal tetto scende lentamente un finto microfono, dalle dimensioni proporzionate agli ampli. Come se la situazione non fosse abbastanza surreale, la band entra sulle note dell’inno nazionale inglese, e alle loro spalle spunta un’enorme union jack. Finito l’improbabile siparietto patriottico, la bandiera britannica cede il posto al logo della band e le note di “God save the queen” vengono spazzate via dall’impeto elettrico di “Love and only love“, per la gioia dei quasi ventimila fan (dall’età media decisamente alta) della O2 arena.
Neil Young, vestito interamente di nero dal cappello alle scarpe, e Frank ‘Poncho’ Sampedro suonano le loro chitarre fronteggiandosi a distanza ravvicinata (lo faranno durante quasi tutto il concerto), il bassista Billy Talbot suona praticamente attaccato alla grancassa della batteria di Ralph Molina, come ad esser certo di non perdersi neanche un colpo. Il palco è enorme, ma i quattro si stringono in pochi metri quadri, come se la vicinanza tra gli strumenti servisse a rendere ancora più potente l’impatto del sound. “Powderfinger” è da brividi, la voce di Neil – in forma smagliante – è perfetta. E’ un concerto rumoroso, fragoroso, talvolta un tantino sgangherato (“Francamente, credo che parecchie volte questa sera abbiamo fatto schifo…ma, con quello che facciamo, succede“, confessa candidamente Young prima dei bis, in uno dei pochissimi momenti in cui sembra interessato ad interagire col pubblico).
I quattro attempati signori sul palco si lanciano spesso e volentieri in lunghe jam psichedeliche, creando un vortice sonoro impetuoso, che non conosce compromessi: la lunghissima coda di rumore, feedback, abrasioni sonore assortite della spettacolare “Walk Like A Giant” (dall’ultimo disco, “Psychedelic Pill”) avrà lasciato interdetti i meno avvezzi agli estremismi sonori, ed è sicuramente qualcosa che non tutti avrebbero il fegato di consentirsi in un’arena gigante come questa. La band sembra divertirsi, la carica di energia sprigionata sul palco è qualcosa di indescrivibile. Talvolta si pecca di autoindulgenza (una “Fuckin’ Up” dilatata all’infinito senza che nessuno ne avvertisse davvero il bisogno), o ci s’imbatte in trovate sceniche stucchevoli, da musical di serie b (la ragazza che vaga sul palco con una chitarra in mano durante l’inedita “Singer Without a Song“), ma a una band del genere, che fa impazzire tre generazioni di fan con una spettacolare “Cinnamon Girl” e capace di farti venire la pelle d’oca con una deflagrante “Hey Hey, My My“, finisci per perdonare qualsiasi cosa.
E’ uno show di Neil Young & Crazy Horse, quindi non c’è da sorprendersi se in scaletta mancano i grandi classici di “Harvest”, “After the golden rush” eccetera. Eppure, a metà concerto, Young rimane da solo sul palco per una breve parentesi acustica in cui trovano posto brani come “Red Sun” e “Comes a time” (oltre ad una spettacolare cover di “Blowin’ in the Wind”), nelle cui registrazioni i Crazy Horse non furono coinvolti.
Per il primo dei bis, Frank ‘Poncho’ Sampedro suona un organo calato dal tetto del palco e sospeso con dei cavi. E’ “Like A Hurricane”, travolgente e malinconica com’è giusto che sia. Concludono il set l’immancabile “Roll Another Number (For the Road)” e “Everybody Knows This Is Nowhere“, che la band decide di suonare nonostante gli fosse stato comunicato di aver già “sforato” (“Ci dicono che dobbiamo smettere perché altrimenti non riuscite a prendere l’ultimo treno…fanculo il treno!” è il commento di Sempedro sulla “rigidità” degli orari londinesi). Dopodiché le luci in sala si accedono e i quattro salutano il pubblico con un inchino al centro della scena.
Nella metropolitana un busker canta “Rockin’ in the Free World” alle centinaia di persone che si riversano nella stazione e che avrebbero probabilmente preferito sentirla cantare dalla voce del suo autore qualche minuto prima nell’arena. Ma il concerto di stasera era qualcosa che prescindeva i singoli episodi: si trattava piuttosto di farsi trasportare, per due ore abbondanti, in un viaggio sonoro nello spirito dei grandi happening dell’epoca d’oro del rock, guidati da tre hippie californiani capitanati da un canadese burbero di quasi settant’anni, intenzionati a dar libero sfogo allo spirito rock and roll più puro, libero e animalesco piuttosto che a compiacere il pubblico. Finché ci saranno performer del genere in giro, è il caso di dirlo, “rock and roll will never die”.
autore: Daniele Lama