C’era una volta un’equazione perfetta che era composta più o meno da queste variabili: rock, stadio, folle oceaniche e sold-out. Aggiornata ai nostri giorni, in questo tempo che non è eresia definire imperfetto, la stessa equazione si è leggermente modificata e dove c’era uno stadio ora abbiamo un palazzetto (o una tensostruttura o un locale abbastanza particolarmente capiente), dove imperversava il rock ora spopola l’indie-folk e aldilà delle presenze numeriche, una sola variabile è rimasta ancorata al passato recente: il sold-out!
Questo per dire che dopo i tre pienoni di pochi giorni fa dei Mumford&Sons, anche gli Of Monsters and Men, neopaladini del genere di cui sopra, sono accompagnati da grandi numeri e da grandissimo hype, nonostante un solo album alle spalle e una carriera ancora sulla rampa di lancio.
L’ensemble islandese però non sembra soffrire assolutamente l’attesa che li circonda, sarà la forza del collettivo (ben sette!), sarà l’allegria e la spensieratezza con cui suonano, ma tutto il concerto è pervaso da un’aura di leggerezza e buon umore che un lunedì sera di fine inverno, nell’ancora freddissima Bologna, sembra tanto un venerdì di pieno luglio.
Sold-out dicevamo, e la paura che tutta questa gente sia qui solo per il momento in cui suoneranno “quella della pubblicità” è forte e concreta, ma svanisce sulle prime note di “Dirty Paws”, quando invece realizzo che tutti cantano tutto con un trasporto e una padronanza degni di un fan di una boy-band. Ma fortunatamente davanti a noi c’è una band di ben altro spessore, con uno stile che, seppur non originalissimo, risulta ricco di fascinazioni e di rimandi che strizzano l’occhio a riferimenti ben più classici di quanto si possa pensare. “From Finner” ci lascia assaporare l’eterea voce di Nanna Bryndìs Hilmarsdottir accompagnata da una fisarmonica “alla Yann Tiersen” e da sonorità quasi bandistiche, mentre “Slow and Steady” e “Mountain Sound” – con la particolare voce di Ragnar Raggi ρhorallsson in aggiunta a quella fiabesca di Nanna – virano decisamente verso un pop scanzonato e danzereccio che fa la felicità di tutto l’Estragon, trasformandolo un gigantesco pub. Il concerto, come del resto la scaletta dell’album, è un piacevole e frenetico saliscendi fatto di piccole gemme sognanti come “Love Love Love”, quasi una suoneria da carillon, da divertito e arioso pop-folk come in “Numb Bears” e “King and Lionheart” e da episodi come “Your bones” che sfiora territori e sound quasi da west-coast. Verso la fine, dopo la cover di “Skeletons” degli Yeah Yeah Yeahs e poco più di un ora di concerto, arriva anche l’oramai famosissimo tormentone radiofonico (…e telefonico) “Little Talks”, con il suo carico di delirio e gioia al quale, bisogna ammetterlo, è difficile resistere, ma che non intacca minimamente la sincerità e la spontaneità di tutto il resto della serata. Il primo e unico bis si apre con l’acustica “Sloom”, in cui le voci di Nanna e Raggi s’intrecciano alla perfezione creando atmosfera e zucchero filato, e si chiude con “Yellow Light”, che parte dolce e sussurrata, ma che pian piano si trasforma in una lunga marcia ossessiva e ipnotica, con Nanna a volteggiare e picchiare forsennatamente su un tamburo, per dar vita a un mantra straziante e irresistibile, lasciando intravedere tra le gioiose sfumature di questo gruppo, anche un lato più oscuro e intimista che non può che essere un valore aggiunto a future produzioni.
autore: Alfonso Posillipo