Annunciato dal singolo The Tower, con tanto di video diretto da Jonathan van Tulleken , co-prodotto da Steve Wright, e mixato da Steve Wright e Chris Coady (che torna a lavorare con la band dopo Singles del 2014) il nuovissimo disco dei Future Islands “People Who Aren’t There Anymore” uscito il 26 gennaio 2024 pre i tipi 4AD, segue quello prodotto in piena pandemia nel 2020, As Long As You Are.
Se As Long As You Are si volgeva al futuro, confrontandosi con vecchi fantasmi e abbracciando una nuova speranza, pieno di fiducia, di onestà e di redenzione, questo nuovo disco, come dice il titolo, si rivolge invece al passato, al ricordo di chi non c’è più, anche se non è un disco cupo e funereo. Samuel T. Herring (voce, testi), William Cashion (basso, chitarre), Gerrit Welmers (tastiere, programmazione) e Michael Lowry, ormai definitivamente accorpato alla band anche come credits per la batteria, hanno deciso stavolta di guardarsi dentro, specialmente con testi molto introspettivi di Herring, raggiungendo un nuovo livello di vitalità, pur concependo alcuni dei loro brani più ispirati e più strazianti, e prendendosi il loro tempo, inserendo nel disco alcuni brani lenti in cui sembra contare ogni respiro, ogni sillaba, ogni nota.
Il disco suona rigorosamente Future Islands, anzi, è ancora più coerente e rigoroso nel suo synth-pop rispetto agli altri: la chitarra è sfumata, la parte da protagonista è la tastiera, espressamente post-wave o new wave che dir si voglia.
The Tower per esempio è esemplare in questo: si presenta subito con note di piano seguite da loop e ritmi elettronici, tuffandosi in pieni anni ’80. I singoli precedenti Deep In The Night, King of Sweden e Peach, usciti prima del disco, mentre la band terminava il tour di As Long As You Are, seguono la stessa scia con applicazione maniacale. Fra tutti, King of Sweden che apre il disco è il più magnetico, il più accattivante, anche grazie a un basso, pure questo rigorosamente anni ’80, che martella dopo l’attacco iniziale di tastiere, basso che ritorna in Peach, a introdurre il pezzo che poi subito parte con ritmi quasi dance-pop.
La struttura delle canzoni dei Future Islands è in fondo semplice, e oramai collaudata: non ci si deve aspettare novità, cambiamenti, esperimenti, e nemmeno picchi altissimi di talento o di sound: la band in 16 anni ha dimostrato che il loro spazio, la loro nicchia, è un purissimo sound anni ’80 ricco di tastiere che evocano tantissimo quei suoni del pop raffinato e patinato, e che però è il sound anni ’80 che avresti voluto sentire all’epoca, più pulito, fresco, mai eccessivo nell’uso dell’elettronica e francamente anche più vivo, vivido e sincero rispetto appunto alla troppa patina di certe pur memorabili canzoni pop dell’epoca (sentite per esempio The Thief, o Iris, come suonano nuove e al tempo “classiche”). Anche in questo disco non sconfinano nel rock, ma rimangono al di qua di un compiuto e totale passaggio che sembra essere il loro punto d’arrivo mai però raggiunto.
Ci vanno molto vicini, forse più vicini che mai, in Give Me The Ghost Back, la canzone più riuscita del disco e uno dei loro vertici assoluti, in cui, potremmo dire finalmente, evocano gli anni ’80 ma di band come i Simple Minds o New Order.
Altra chicca sonora sono i lenti di questo disco, particolarmente ispirati rispetto agli esordi, come per esempio Corner of My Eye, intensissima anche dal punto di vista del testo, o The Fight, in cui Harring riserva la sua prova canora forse migliore nel disco, o The Sickness, che arriva a toni molto lirici.
Nel suonare così perfettamente anni ’80, così perfettamente sinth-pop, così perfettamente Future Islands, il disco è quasi didascalico, e forse il suo unico difetto è la totale assenza di sorprese. Ma anche il segno di una grande maturità, e di una consapevolezza del proprio stile che i quattro di Baltimora difendono con radicalità, senza compromessi.
https://www.future-islands.com
Ph. credit Frank Hamilton