In occasione dell’uscita del bel disco di Kenny Barron “Beyond This Place”, in riferimento ai pianisti jazz, scrissi: “Feci la conoscenza con la musica di Kenny Barron quando da ragazzo, appena ventenne, acquistai “Night And The City” (del 1998) a firma di Charlie Haden e Kenny Barron, un disco di cui mi innamorai e che tuttora adoro (analoga esperienza la provai con “Paris Blues” del 1988 di Gil Evans e Steve Lacy); all’epoca i pianisti jazz (per limitare la trattazione al pianoforte) che prediligevo erano Keith Jarrett (di “Facing You” del 1972 – ancor prima degli storici live a Colonia del 1975 – che resta un capolavoro – , Parigi del 1988 e Vienna del 1991 – e in trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette – “Still Live” registrato nel 1986 in particolare, ma in generale tutti i lavori a loro nome), Bill Evans (in trio con Scott LaFaro e Paul Motian – “Portrait in Jazz” del 1960, “Sunday at the Village Vanguard” del 1961, “Waltz for Debby” del 1962) e il Bill Evans di “You Must Believe in Spring” (con Eddie Gómez e Eliot Zigmund del 1981; da citare anche la versione di “Invitation” del duo Evan-Gómez da “Intuition” del 1975), di “Affinity” del 1979 con Toots Thielemans e di “Undercurrent” del 1962 con Jim Hall, il Thelonious Monk di “Brilliant Corners” del 1957 e di “Straight, No Chaser” del 1967, l’Horace Silver Quintet di “Song for My Father” del 1965, il McTyner di “Sahara” del 1972, l’Herbie Hancock di “Empyrean Isles” del 1964 e “Maiden Voyage” del 1966, l’Oscar Peterson Trio (con Ray Brown e Ed Thigpen) di “Night Train” del 1962, il più estremo Cecil Taylor di “Nefertiti the Beautiful One Has Come” del 1963 … e molto mal digerivo Chick Corea sopratutto con l’Akoustic Band con John Patitucci e Dave Weckl”.
Successivamente, in età più adulta, sempre in riferimento al pianoforte in ambito jazz, fui colpito prima da alcuni lavori di Marcin Wasilewski (in particolare da “January” del 2008 – splendida la versione di “Diamonds and Pearls” di Prince e “Faithful” del 2011) e poi da Nduduzo Makhathini, musicista capace (come pochi) di operare una perfetta fusione tra spiritualità, cultura africana e jazz.
Dopo aver esordito a suo nome nel 2014 per la Gundu Entertainment, nel 2017 Makhathini dà alle stampe, per l’Universal Music South Africa, “Ikhambi”, preludio per quella che sarà la consacrazione con l’approdo alla prestigiosa Blue Note Records e la pubblicazione, nel 2020, di “Modes Of Communication: Letters From The Underworlds” (esatto sin dall’apertura affidata a “Yehlisan’uMoya” e completato dalle belle “Unyazi”, “Umlotha”, “Indawu”…).
Nel 2022, ancora per la Blue Note Records, è la volta dell’altrettanto compiuto “In the Spirit of Ntu” (di pregio “Unonkanyamba”, “Amathongo”, “Nyonini Le?”, “Emlilweni”, “Abantwana Belanga”, “Omnyama”, “Ntu”…).
Ora, a dieci anni da quel 2014, Nduduzo Makhathini si conferma pianista e compositore con l’ottimo “uNomkhubulwane” (sempre per la Blue Note Records).
In “uNomkhubulwane” è forte la spiritualità e il legame all’Africa; nelle lunghe note di copertina intitolate “uNomkhubulwane: a Meditation”, si legge: “…Closely related to notions of God, essence, sound and creation myths, Zulu people believe that in the beginning, God was with uNomkhubulwane, a central symbol in this work. uNomkhubulwane is regarded as God’s only daughter and a manifestation of God’s very creation purpose… This album invokes the spirit of uNomkhubulwane as a way of signalling abundance, especially in African, and by extension, broader black biographies wherein the colonial/post-colonial period has emphasised ‘lack’ as a normative state in African lives…”.
Passando all’ascolto, la prima cosa che spicca è la formazione che, rispetto ai citati precedenti lavori Blue Note (e non solo), rinuncia ai fiati (sassofono, tromba, flauto), alle voci femminili e ad altri strumenti (quali ad esempio il vibrafono o le “percussioni”…) per assestarti su un trio composto da pianoforte e voce (ovviamente di Makhathini), contrabbasso e voce (Zwelakhe-Duma Bell le Pere) e batteria e voce (Francisco Mela), con il risultato di un suono più asciutto, diretto ma al contempo pieno e meditativo (si confrontino ad esempio “Omnyama” e “Umlayez’oPhuthumayo” di “uNomkhubulwane” con quelle rispettivamente di “In the Spirit of Ntu” e “Modes Of Communication: Letters From The Underworlds”).
Il disco è, poi, un doppio vinile inciso su tre lati divisi in tre movimenti (Libations, Water Spirits e Inner Attainment), ognuno di essi a sua volta composto da più brani.
- Movement One: Libations
Con eleganza la voce (tra spoken, canto e consonanti clic, quest’ultime saranno “linguaggio” per tutto il disco), il pianoforte e una pacata sezione ritmica tribale (anche in assenza di “percussioni”) caratterizzano “Omnyama”, esecuzione che si esalta nell’essenzialità del trio che, con incredibile naturalezza, cambia il passo in chiusura virando verso un’apertura jazz.
Jazz che, nella sua forma più “classica”, s’impone in purezza nella bella “Uxolo” (si sentono tra le note richiami a Keith Jarrett, richiami che copariranno anche altre volte come ad esempio in “Izibingelelo”).
Con “KwaKhangelamankengana”, Nduduzo Makhathini, Zwelakhe-Duma Bell le Pere e Francisco Mela camminano con maestria su un filo sospeso su di uno strapiombo fatto di jazz e di vibrazioni etniche (impreziosite dalla voce di Makhathini), mostrando un mirabile e (raro) equilibrio.
- Movement Two: Water Spirits
Se in “Izinkonjana” la matrice jazz (quasi europea) è bilanciata con “passi” di tango per un altro momento ispirato e riuscito, in “Amanxusa Asemkhathini” prevale un senso di serrata astrazione in cui la scomposizione del tema è il tema stesso, astrazione che è colorata dalla voce nell’intensa e tesa “Nyoni Le?”.
“Iyana”, con il suo “canto” di contrabbasso e pianoforte e con la voce di Makhathini, è altra mirabile prova di equilibrio tra la “tradizione” africana e il jazz; è impressionante come il pianoforte riesca a muoversi con naturalezza a cavallo tra i due “generi”.
- Movement Three: Inner Attainment
Il terzo movimento (e lato) è aperto da “Izibingelelo”, in cui il trio prima rialaccia il discorso lasciato in “sospeso” con “Amanxusa Asemkhathini” e “Nyoni Le?”, per poi aprirsi in una sentita improvvisazione.
Se più libera e scomposta è “Umlayez’oPhuthumayo”, serrata, ritmica e africana è “Amanzi Ngobhoko” (anche essa caratterizzata dalla voce).
Chiude nel migliore dei modi “uNomkhubulwane” il solo pianoforte della delicata “Ithemba”, per un disco che entra di diritto nel “jazz” dei giorni nostri.
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