La Union Chapel è semplicemente uno dei posti più belli in cui abbia mai assistito ad un concerto. Una cappella vittoriana, costruita in stile gotico nella seconda metà dell’‘800. Attiva sia come chiesa (gestita da una congregazione di anglicani non-conformisti) sia come venue per concerti di ogni tipo, che il pubblico può godersi comodamente seduto sulle panche di legno al centro della chiesa, o sulle balconate disposte di fronte e ai lati del palco/altare.
In un posto tanto affascinante, è inevitabile che i concerti “carini” possano risultare “belli”, quelli “belli” possano sembrare “bellissimi” e così via.
Ma gli Herman Dune non son un gruppo da “fumo negli occhi” e la “vittoria sul campo” se la sarebbero conquistata anche suonando sotto la stazione della metropolitana.
Dopo il prescindibile opening-set degli sbarbatelli americani Sean Flinn & The Royal We ed il loro indie-folk educato e insipido, la band francese sale sul palco alle nove in punto.
La line up è attualmente costituita da André Herman Düne (chitarra e voce) e il batterista Cosmic Neman, cui si affianca il bassista Ben Pleng.
Nei novanta minuti di concerto, pur con la strumentazione ridotta all’osso (Neman si alterna tra le percussioni e il tradizionale set di batteria), i Nostri sono capaci di dare un saggio delle diverse sfumature di cui è costituita la musica di questa strana creatura chiamata Herman Dune: dalle brezze da highway americana fuori dal tempo di cui sono intrise perle melodiche come “In The Long Long Run” e “Ley Your Head On My Chest” alle atmosfere quasi “western” di “My home is nowhere without you”, dall’essenzialismo folk di “On a saturday”, presentata in una versione per sola voce e chitarra, rispetto all’originale spogliata dai fiati e dai cori, a piccoli capolavori pop come “I wish that I could see you soon” e “1,2,3 Apple Tree”.
C’è spazio anche per le dilatazioni elettriche di “Magician” e per il momento “caciara”, con l’intera formazione di Sean Flinn & The Royal We richiamata sul palco per fare i cori di “Ah Hears Strange Moosic”.
André trova anche il tempo di ricordare il ventennale dell’uscita di “Nevermind” dei Nirvana, presentando “Not on top”, canzone incisa cinque anni fa in cui cantava, appunto, “Nevermind m’ha cambiato la vita quindici anni fa” (e i conti tornano). Peccato solo che in scaletta non c’era il mio brano preferito, “My Friends Kill My Folks”.
Ma la discografia degli Herman Dune, così ingarbugliata e piena di pubblicazioni semi-ufficiali o comunque ultra-underground, è una cosa talmente complessa che non mi stupirei se non ricordassero nemmeno di averla incisa. In ogni caso i tre lasciano il palco avvolti da una calorosa standing ovation. Assolutamente meritata.
Autore: Daniele Lama
www.hermandune.com