“Forget Tomorrow” è la colonna sonora di un viaggio a ritroso nel tempo, verso un’epoca in cui rock faceva rima con discoteca, e il luogo dove tutto avveniva era Manchester, non a caso rinominata “Madchester”. Che l’ottica nella quale leggere il terzo album dei Macha sia questa lo suggeriscono sia l’iconografia che correda il CD (dall’allusione in copertina, neanche troppo velata, alle droghe, alla grafica stroboscopica del disco), sia, soprattutto, le sonorità new wave che colorano quasi tutte le 13 tracce.
Nel passato del trio di Athens ci sono due album, uno dei quali (“See It Another Way”, 1999) aveva rapidamente raggiunto il primo posto delle college charts, che in America equivale a gloria certa. Insomma, dinanzi a loro un futuro roseo (quello che adesso ci chiedono di dimenticare?). Poi, 5 anni di silenzio per produrre “Forget Tomorrow”, con il quale i Macha provano a riprendersi quello che avevano lasciato sul piatto.
Ambizioni rinnovate, ma il corredo stilistico è rimasto il medesimo: beats danzerecci, linee di basso ultrafunky, vocalità alla Michael Hutchence, diavolerie elettroniche assortite, largo uso del colpo d’anca sul palco (suppongo). Il loro obiettivo è semplice: rendere “sexy” ciò che gli U2 contrabbandavano per novità con “Zooropa”. Per raggiungerlo cercano una propria dimensione fra suoni campionati (molti) e suoni suonati (pochi), fra allusioni pop e loop chitarristici. Dividono l’album in due metà ideali, la prima più allegrotta e cazzeggiona, la seconda più intimista e disposta a fare i conti con una vena sperimentale che a tratti pulsa impazzita (‘Back in Baby’s Arm’).
Peccato che il tutto non funzioni come dovrebbe, perché le due parti comunicano a stento fra di loro, e non hanno molto da dire se considerate in se stesse. L’ascolto dell’intero album, insomma, comunica, oltre ad una leggera sensazione di schizofrenia, un che di incompiuto, di sospeso, come se il disco fosse stato realizzato in 5 mesi, e non in 5 anni. “Forget Tomorrow” avrebbe fatto dei Macha un’ottima opening band per i Joy Division o, più modestamente, per gli INXS. Resta da vedere se il mercato sia disposto, oggi, ad accogliere l’ennesima band post-post-punk. Che ne direbbero i Rapture?
Autore: Andrea Romito