Quando nel 2006 uscì Whatever People Say I Am… la scena rock inglese era ormai persa dietro quelle due macchiette dei fratelli Gallagher e i loro patetici epigoni. Da anni mancava da Londra una musica in grado di trasmettere tanta energia e irruenza e gli Artic Monkey rappresentarono una vera e propria boccata di aria fresca.
Era incredibile la naturalezza con la quale i quattro ragazzi di Sheffield, appena ventenni, erano riusciti a smuovere le acque frantumando, dopo dodici anni, il primato degli Oasis con 363.735 copie vendute nella prima settimana. Quella dei primi due album, Favourite Worst Nightmare seguirà dopo poco più di un anno, era stato un assalto furioso quanto allegro che solo l’ingenuità giovanile poteva mettere in moto. Brani come I Bet You Look Good on the Dancefloor, Fluorescent Adolescent e The View From The Afternoon erano uno splendido impasto tra le chitarre grezze di una garage band e una ritmica serrata con ritornelli irresistibili e contagiosi che restavano in mente dopo il primo ascolto. La musica accelerava, frenava e ripartiva con una frenesia tale da scomodare paragoni con mostri sacri come The Who e Jam. Ad un rock vitalissimo si accompagnavano inoltre testi duri e mai banali.
Istantanee livide e rabbiose della vita quotidiana dei sobborghi nel Nord dell’Inghilterra con il suo corollario di speranze deluse ed orizzonti limitati, di serate a base di birre e risse, amicizia, ragazze e amori falliti. Un realismo tanto vivido da rendere Alex Turner il songwriter della sua generazione. In poche parole c’era nuovamente in circolazione una band in grado di rimettere al centro il rock con la sua urgenza e la sua passione. A vent’anni dopo un tale successo chiunque si sarebbe fermato, invece gli Artic Monkey decidevano di rimettersi in gioco. La scelta di chiudersi nello studio Rancho de La Luna di Josh Homme (Queen of Stone Age) per il terzo album, segnalava la volontà di espandere gli orizzonti, di immergersi in una dimensione completamente diversa rispetto a quella da cui avevano tratto molta della loro originaria ispirazione. Humbug del 2009 si discostava totalmente dal suono che li aveva portati al successo. Lo stile e la tecnica non erano molto diversi rispetto al passato, quello che era differente erano gli arrangiamenti e il rallentamento dei ritmi, le suggestioni psichedeliche delle geometrie chitarristiche e l’uso delle distorsioni.
L’ esuberanza giovanile venivano barattati con un suono più maturo e metodico quasi introspettivo. My Propeller indicava la nuova direzione. Dangerous Animals era un rock, rabbioso. Dance Little Liar splendida e cupa da lasciare senza fiato. Crying Lightning aveva un suo richiamo sixty. Brani che rispetto al passato avevano solo bisogno di un ascolto un po’ più attento prima di essere amati.
La carriera degli Artic Monkeys aveva definitivamente preso il volo, diventando un fenomeno internazionale.
Due anni più tardi ispirazione musicale, libertà creativa dei nostri amici esplora ancora nuovi suoni. Ancora in California nei Sound City Studio di Los Angeles, questa volta con il ritorno al timone James Ford che aveva prodotto i primi due album, così come tre brani su Humbug. Suck It and See è invece una brillante raccolta di canzoni che sorprendentemente si immerge nelle melodie sontuose e languide degli anni sessanta e settanta. Dodici tracce che dimostrano come la creativa dei ragazzi di Sheffield sia stata tutt’altro che sopita dalla celebrità, si percepisce invece il divertimento, l’assenza di pressione rispetto alle precedenti prove.
L’adrenalina, la classica ruvidezza della band in questo episodio sono state sostituite dal desiderio di dominare un songwriting classico. Per comprenderne appieno la freschezza e l’originalità di questo lavoro basta semplicemente fare il confronto con i cinque anni di cui hanno avuto bisogno gli Strokes per confezionare il banalissimo “Angles”.
She’s Thunderstorms, Black treacle, Love Is a Laserquest, Reckless Sereneade, Suck It and See, solo per citare le gemme più brillanti, sono ballate intrise di un rock lisergico che trasmette tutto il calore del sole della California. Strutture molto semplici dove non è più il continuo intrecciarsi dei riff di chitarra di Jamie Cook a sostenere le melodie, ma solo pochi fluidi accordi. Brick by Brick e Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair sono invece agganci al passato. Pezzi rock ‘n roll dove la batteria di Matt Helders e il basso di Nick O’Malley rispolverano la vecchia intensità.
Alex Turner, piaccia o no, sa scrivere canzoni come pochi altri. I testi sono acuti e mai indulgenti. L’elenco di versi memorabili è quasi senza fine (I wanna build you up brick by brick/I wanna break you up, brick by brick/I wanna reconstruct, brick by brick/I wanna feel your love, brick by brick/I wanna steal your soul, brick by brick/I wanna rock and roll, brick by brick).
In alcuni casi l’approccio alla scrittura è cambiato non più ritratti quotidiani di una gioventù inquieta ma metafore aperte all’interpretazione (Bite the lightningand tell me how it tastes/Kung fu fighting on your rollerskates/Do the Macarena in the Devil’s lair/But just don’t sit down ‘cause I’ve moved your chair).
Suck it And See è un album di qualità superiore, diverse spanna sopra la media. Provate e scoprite se per voi funziona.
Questa la tracklist:
She’s thunderstorms
Black treacle
Brick by brick
The hellcat spangled shalalala
Don’t sit down ‘cause I’ve moved your chair
Library pictures
All my own stunts
Reckless serenade
Piledriver waltz
Love is a laserquest
Suck It and see
That’s where you’re wrong
Autore: Alfredo Amodeo
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