“My name is Buddy” è il secondo volume di una trilogia ideata da Ry Cooder dedicata alla scomparsa dello “spirito americano”. Quello spirito della solidarietà e del senso di unione che negli ultimi decenni è purtroppo svanito. Cooder, infatti, nelle interviste rilasciate in occasione dell’uscita di questo cd, ha ribadito sempre che se gli Usa oggi sono una potenza lo si deve al lavoro della sua classe operaia, che è stata fondamentale anche per l’ottenimento dei diritti civili. Con queste premesse cosa aspettarsi da questo album se non un omaggio alle radici folk musicali degli states? Cooder è da tempo, infatti, che non si diletta più con il rock, ma preferisce dedicarsi alla musica popolare, così si può ulteriormente spiegare la motivazione che lo ha spinto a farsi aiutare da gente come Flaco Jimenez, Van Dyke Parks, Jim Keltner, il figlio Joachim, Mike Seeger, Pete Seeger, Roland White, Paddy Moloney dei Chieftains, Terry Evans e Bobby King, Stefon Harris e Jacky Terrasson, Jon Hassell, Juliette Commagere. “My name is Buddy” così scorre in oltre settantuno minuti tra traditionals (“Footprints in the snow” e “There’s a bright side somewhere”), omaggi alle radici irlandesi che si sono poi tramutate in country (“Suitcase in my hand”, “Cat and mouse”), il country-blues delle origini della title-track e soffici ballate country, oltre ad altri generi, quali gospel, hillybilly, bluegrass e la raffinatezza del jazz-soul di “Green dog”. L’approccio a “My name is Bufddy” non può essere spensierato, in quanto è un lavoro che costringe a pensare, ma non appesantisce, perché la musica che accompagna questi versi impegnati è assolutamente piacevole.
Autore: Vittorio Lannutti