Dopo David Bowie, REM, Patty Smith e compagnia varia, quest’anno è toccato ai Cure implementare l’ormai corposa sezione di nomi storici del rock che hanno fatto tappa a Napoli in occasione del Neapolis Festival. Sede del concerto, è stata al solito l’ex area dell’Italsider. Fin dal primo pomeriggio orde di giovani dark, improbabili controfigure di Robert Smith e semplici fan hanno pian piano preso posto all’interno del luogo deputato all’esibizione. Verso le 21 si sono alternate sul palco due oscure band italiane di cui ignoro il nome e la cui presenza, comunque, è passata del tutto inosservata. Intorno alle dieci, finalmente, i Cure hanno preso possesso dei loro strumenti. Robert Smith (voce/chitarre), Simon Gallup (basso), Roger O’Donnel (tastiere), Perry Bamonte (chitarre), Jason Cooper (batteria), sono partiti a spron battuto, presentando in anteprima alcuni estratti dal loro nuovo omonimo album che sarà pubblicato a fine Giugno. Visto e considerato che nessuno dei presenti conosceva i brani in questione, l’accoglienza è stata ovviamente piuttosto tiepida. La mia impressione personale è che non ci siano grosse novità all’orizzonte sebbene due o tre pezzi son parsi davvero niente male. Temperatura a parte, c’è voluto qualche richiamo al passato prima che l’atmosfera generale si riscaldasse realmente. Le varie “Fascination Street”, “Charlotte Sometimes”, “Love Song” hanno via via fatto decollare l’interazione tra gruppo e platea. Non essendo mai stati i nostri, in particolare Robert Smith, dei grandi animali da palcoscenico, è stata l’esecuzione della musica il vero fulcro del concerto. La dipartita, avvenuta ormai vari anni fa, del polistrumentista Porl Thompson, in effetti, ha fatto perdere in parte ai Cure quel tocco di eccentricità che li caratterizzava. Certo, i cinque decadenti “imaginary boys” rimangono tutt’ora dei professionisti seri(osi) e degli ottimi musicisti. Non si risparmiano nell’eseguire lunghe cavalcate narcoelettriche alternate alle canzoni più pop del loro repertorio (“Just Like Heaven”, “Boys Don’t Cry” tra le altre), sforando abbondantemente le due ore di presenza sul palcoscenico. Io, però, quella magia che tanto mi aveva fatto amare il dr Smith e la sua “cura”, stasera l’ho vista e sentita solo a tratti. Ah, maledetta nostalgia…
Autore: LucaMauro Assante