I True Widow da Dallas sono un trio formato da Dan Phillips alla chitarra, Nicole Estill al basso e Timothy Starks alla batteria e fanno slow core.
Il termine che di per sè indica una moltitudine di bands (Codeine, Red House Painters, Mazzy Star, Galaxie 500, For Carnation, Spain, American Music Club e mi fermo qui tanto ci siam capiti..) ad un orecchio smaliziato dice tutto e nulla poichè tra questi nomi si celano quelli che in realtà sono puro post-rock rallentato, altri, fautori di un rock più onirico e psichedelico appartenente alla galassia shoegaze ed infine chi in questo calderone ci è finito solo perchè il suo folk è oscuro e depresso.
Allora occorre tirare fuori solo un nome che di diritto merita l’appellativo slo-core senza ulteriori spiegazioni nè pericolo di fraintendimenti: i Low, i grandissimi Low (che tra l’altro son tornati in questi giorni con un nuovo album, C’mon, più classico nei confronti della tradizione sad folk americana rispetto ai loro albums precedenti). Ecco, i True Widow sono molto old-Low oriented.
Tornando per un attimo allo shoegaze, se l’orecchio di prima è accompagnato anche da un buon occhio e da una discreta curiosità per la blogosfera musicale, avrà notato che in quest’ultimo periodo se ne parla tantissimo, soprattutto in chiave deformata a seconda dell’imbastardimento cui è sottoposto (shitgaze se si allude all’indie lo-fi, blackgaze per quella scena francese di black metal melodico ecc.).
Per i True Widow è stato coniato il termine stonegaze, ove si può facilmente intuire che allude a suoni stoner in un contesto shoegaze.
Al di là del ridicolo insito in ogni nuova definizione mediatica (quasi ogni band ha un suo genere, e questo non è possibile), c’è un fattore di parziale verità che occorre mettere in luce e che fa di questo disco un grande disco, uno dei più belli in questo scorcio di 2011 e che fa dei True Widow una band con semplici ma belle intuizioni; esso consiste nel fatto che questi texani hanno dei suoni belli grassi, grossi e cicciotti, accordature ribassate e non lesinano a girare fino in fondo le manopole dei volumi e della distorsione, come farebbe un qualsiasi gruppo sludge/post hc, e se la scrittura dei brani, il tipo di melodie e atmosfere, l’uso delle voci maschile/femminile non richiamasse quelli dei Low, potremmo pure credere di fronte ad ogni inizio di brano di trovarci al cospetto di una band del genere.
Poche note insistite, plettrate pesanti, suoni fangosi, voce lontana come se venisse da un’altra stanza ma senza mai uscire da quella dimensione ipnotica, malinconica, dolce ed elettricamente drogata (i Come della coppia Zedek/Brokaw?).
Chi non è amante dei suoni heavy ed ama invece le derive americane più in penombra tipiche delle bands citate si avvicini pure con entusiamo a True Widow, chi invece non riesce più a disintossicarsi dalle scorie tossiche dello stoner, dello sludge, del doom e del post-hc sappia che suoni gravidi di oscuri presagi ne trova anche qui e da qui potrebbe cominciare la sua terapia a base di slow core. Per questi ultimi un’ulteriore garanzia: la label Kemado su cui esce questo secondo full-lenght dei True Widow ha nel proprio rooster tipacci come The Sword (new thrash), Danava (heavy psych) e Xasthur (contemporary black metal) e tutto potrebbe tornare come in una magica, impossibile alchimia.
Autore: A. Giulio Magliulo