Dai fratelli Friedberger bisogna aspettarsi sempre disinvolte riletture dei territori pop, attuate con una prassi e una capacità innovativa abbastanza insoliti per il panorama musicale odierno. I Fiery Furnaces sono dei musicisti inaffidabili che non si stancano mai di fare e disfare melodie a volte cacofoniche a volte celestiali, magari prendendo a schiaffi apertamente lo sciagurato fruitore. E “Bitter Tea”, il loro nuovo lavoro, rispetta questi assunti senza mai cercare percorsi ritmici compromissori, infatti la dimensione che arriva all’orecchio risulta multiforme ed inafferrabile. È In My Little Thatched Hut che dà l’abbrivo al cd con una tenacia accattivante e già si possono rintracciare gli stilemi degli album precedenti, nei quali le scorribande elettroniche tracciavano dinamiche scanzonate salvo poi spezzarsi bruscamente in lineari stacchi di chitarra acustica. Anche le seguenti I’m In No Mood e Black-Hearted Boy , legate da un ideale enjambment, sono figlie delle produzioni scorse pur se contaminate da una mestizia ridanciana ben rappresentata dal canto melodioso di Eleanor. Dominano però ingombranti effetti di riverbero e reverse che prima potenziano le suggestive cadenze classiche del pianoforte, ma poi oppongono resistenza allo sbocco delle idee (tante) messo in gioco. Non solo dirompenti dissonanze da clown impazziti, perchè Teach Me Sweetheart e Waiting To Know You sono letargici pezzi amorosi con i quali i Fiery affrontano al loro modo la love song, preservandosi la parte finale come detonatore per le solite sbandate imprevedibili fatte di sincopati pattern e plettrate animate da fantasmagorici feedback.
Forniscono una personale versione dell’insipida canzoncina pop con Oh Sweet Woods, memore in qualche modo di Michael Jackson, ma traboccante di piani sonori tra i quali si scorgono frammenti di radio impazzite e fraseggi di chitarre classicheggianti. Di nuovo con Borneo si ostinano a recuperare le atmosfere altalenanti di “Blueberry Boat” con la giunta di significative filastrocche di carillon riprese da insane marcette operistiche.
La più giocosa di tutte tracce, Police Sweater Blood Vow, è non a caso la più breve ma acquista un tono martellante che in più occasioni si risolve in uno straniante motivetto compitato come un facilone ritornello. La più convincente dell’album è però The Vietnamese Telephone Ministry che, eterea e ripetitiva, sgancia insondabili riff a cui le seviziate percussioni non sanno porre argini : in questo marasma desolato emergono canti sconnessi dei Friedberger, probabili retaggi allucinati di un villaggio vietnamita che sembra attendere impotente un imminente attacco americano. Per lenire le ferite di quest’ultima traccia gli scalmanati di Chicago imbastiscono la distensiva Benton Harbor Blues, senza dimenticare di farcirla con solenni frasi di tastiere indebitate, per inattese e sfuggenti mediazioni, con sentieri soul da Motown.
Autore: Roberto Urbani