Di voci antagoniste dell’ “underground” americano ve ne sono indubbiamente diverse, ma quante di queste possono dirsi tali anche artisticamente oltre che ideologicamente? Bobby Conn è certamente una di queste; navigare tra glam, funky, soul-disco senza mai insinuare dubbio di volgare revival, non è facile né da tutti. Il piccolo uomo di Chicago invece ci riesce benissimo, salendo sul palco in completo lilla finta pelle, cinta verde e arancio, zattere orribili ai piedi, occhi cerchiati di matita azzurra e chitarra elettrica rossa fiammante (il resto è affidato alle basi trasmesse da un pioneerino). Quest’immagine richiama certamente icone della cultura seventies come Bolan o altri più trasgressivi rockers in lustrini dell’epoca, ma è l’imprevedibilità musicale e l’impossibilità a distinguere la linea di demarcazione tra sinceri conati romantici e grottesco humour anti establishment a fare la differenza. Idilliaci falsetti che precipitano quasi sempre in offensive dialettiche, frequenti discese dal palco all’insegna di una gioiosa ormonalità per flirtare con un pubblico attonito per i dolorosi ghigni o compiacente – accendini alla mano – per i finti orgasmi del performer, strati di chitarra incendiaria sui finali dei brani, avvolgente anche in quelli più torbidamente vellutati o sfrenatamente danzabili (e molti si sono lasciati andare per tutta la durata del concerto alla più naturale pulsione che la musica di Bobby Conn attiva). Considerando la tendenza ad essere conservativi, minimalisti o in qualche modo anemici nell’attuale panorama del rock indipendente, Bobby Conn è di certo un evento che non può passare inosservato.
Autore: A.Giulio Magliulo