Ricominciano gli appuntamenti con i #cinepost. Pure al tempo del Coronavirus.Recensioni e resoconti dal mondo del cinema (ri)posati, lontani dalla logica dell’immanente, del “tutto e subito”, per lasciare spazio alla riflessione e all’approfondimento. Racconti dal cinema e per il cinema che rifuggono dalla mera promozione commerciale per farsi elezione culturale. Resoconti, incontri e interviste, purché lontane dal vortice delle première, delle sale e delle programmazioni cinematografiche. Per un Cinema scelto, pensato, “d’essai”, liberato dal circuito dei cineamatori. Aperto a tutti. E sempre disponibile. Del resto, la molteplicità di fruizione e accesso al racconto cinematografico, rendono la corsa contro il tempo un inutile esercizio senza stile. E per Cinepost lo stile è tutto.
Quando due maestri s’incontrano il risultato può essere soltanto uno: un capolavoro. Orfano dell’uno e dell’altro e figlio di tutto il resto: ambientazione, musica e interpretazione. Se poi quella è affidata a uno come Di Leva, poco da dire: c’è solo da restare ammaliati di Michela Aprea.
Una piccola produzione, veloce, firmata dalla Indigo Film, nata più che altro per avvalorare il lavoro fatto nella periferia orientale di Napoli, in un teatro, il Nest, con sede a San Giovanni a Teduccio, diventato – e non è una farsa – palestra della meglio gioventù attoriale partenopea, che poi è quella del paese. È lì che il regista Mario Martone nel 2017 decide, con il suo solito piglio devotamente rigoroso e intellettualissimo, di approcciarsi con uno degli autori più popolari e, pertanto, raffinatissimo che la storia della cultura napoletana abbia mai partorito. Uno intoccabile, padre, figlio e pure spirito santo della tradizione e dell’innovazione teatrale della città e, pertanto del paese. È a San Giovanni a Teduccio che Mario Martone, insieme alla compagna Ippolita di Majo, smonta e rimonta Eduardo De Filippo, per mostrare al pubblico il suo canone, modulabile e sempre attuale, perché la storia muta ma la natura natura umana resta inchiodata in un moto che è circolare, pure quando “ ‘o munno” lo si vuole un po’ più quadrato. Come lo pretende Antonio Barracano, nella versione martoriana di Francesco Di Leva, corpo giovane e imponente appuntato su due occhi di spillo, spietati, come la sua voce che ogni parola è uno schiaffo, brutale, com’è la vita di chi non è addomesticato e non si vuole addomesticare. Perché il mondo sarà pure tondo e però Barracano prova a farlo più quadrato, più giusto secondo una legge che gli è propria e che attinge da codici ancestrali che ne fanno un eroe tragico e universale: né buono, né malament. Semplicemente è omm e “l’omm è omm quando non è testardo. Quando capisce di fare marcia indietro e la fa. Quando capisce l’errore e chiede scusa. quando amministra e valorizza tanto il suo coraggio quanto la sua paura”.
Il Barracano di Di Leva – Martone è feroce, più di Malavita. Attaccato a una serie di sillogismi inoppugnabili, tanto da rendere tale pure la ragione del cane. E da non sentire ragione di fronte a niente tranne che a sè stesso, fino all’atto finale. Complice un cast ineccepibile e un’interpretazione, pure quella magistrale, Il sindaco del Rione Sanità di Martone, assurge anch’esso a canone, con quel Barracano a stento quarantenne, impettito, palestrato, padre e figlio dell’immaginario che dalla serie Gomorra, al film La paranza dei bambini, fino ai videoclip della premiata ditta Lettieri- Liberato hanno dato a Napoli una nuova allure, tanto mala quanto urban, tale da creare una nuova estetica tutta solo ed esclusivamente partenopea. E Martone, attraverso il testo di Eduardo, se ne impossessa, la fa sua, non se ne discosta, complice il tappeto musicale affidato a Ralph P che al momento giusto sa farsi contrappunto. Di fronte a questa visione del Sindaco, in concorso durante l’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e premiato con un Leoncino, possiamo soltanto alzare le mani. Quando due maestri s’incontrano il risultato può essere soltanto uno: un capolavoro. Orfano dell’uno e dell’altro e figlio di tutto il resto: ambientazione, musica e interpretazione. Se poi quella è affidata a uno come Di Leva, poco da dire: c’è solo da restare ammaliati.
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