David Longstreth è decisamente hegeliano. Nel caso non aveste presente il filosofo in testa all’idealismo tedesco, vorrebbe dire che il frontman e fondatore dei Dirty Projectors possiede una visione della realtà in continuo divenire, ogni istante è solo un momento imperfetto in attesa di sviluppo dialettico che porterà ad una condizione migliore ma non ancora perfetta, poiché è solo nel tendere a un assoluto che avviene il progresso. I Dirty Projectors non hanno mai smesso di divenire qualcos’altro da quello che già erano. Se qualcuno avesse presente i divertissement tanto Captain Beefheart di David e compagni di “Morning Better Last!”, il rock decomposto di “The Glad Fact” e le inquiete sinfonie di “Slaves’ Graves and Ballads” potrebbe già rendersi conto che questa formazione di origini newyorkesi, il cui unico membro costante è rimasto il suo fondatore David Longstreth, ha da sempre avuto il pallino per la sperimentazione sensata e inarrestabile. Ci si sarebbe potuto aspettare uno di quei progetti musicali spocchiosi ed intellettualoidi, ma i Dirty Projectors hanno persino raggiunto il grande pubblico.
“Dirty Projectors” arriva dopo una nuova triade dialettica di Longstreth e collaboratori: c’è stato un momento in sé corrispondente a “The Getty Address” che raccoglieva le intuizioni degli esordi creando un’operetta a tratti rock sperimentale, a tratti art pop, fino a divagazioni oniriche; un momento fuori di sé in cui i Dirty Projectors hanno aperto le porte a nuovi suoni con le reinterpretazioni dei Black Flag in “Rise Above”, per poi lanciarsi nella costruzione di inediti edifici pop rock nel geniale “Bitte Orca”, che prosegue in “Swing Lo Magellan” nella sua revisione dell’enciclopedia dei generi della musica popolare; ora c’è stato il ritorno in sé, la sintesi dialettica del passato. Tuttavia si è trattato di un ritorno solitario, David Longstreth ha sciolto i suoi legami con la collega e compagna Amber Coffman, ma senza scomporsi troppo ha ripreso in mano strumenti e voglia di scrivere realizzando un nuovo passo nel cammino dei Dirty Projectors.
Il soul regna sovrano in questo album omonimo, in cui il self-titled è probabilmente un modo per sottolineare la forza identitaria del progetto e dell’autore. Ma non è il soul degli Steely Dan, a cui la band è stata spesso accostata. Si tratta di un genere assolutamente moderno, che non guarda al passato, ma solo al presente. Longstreth porta con sé le esperienze maturate con Kanye West, da cui attinge la voce che si spacca in cori usate in “Up In Hudson” per raccontare l’amore giovanile e nostalgico (e forse con una nota autobiografica). Anche la collaborazione con Solange si fa sentire, in particolare nella scrittura di “Cool Your Heart”, perfetta bandiera di ciò che è oggi l’electro-soul, realizzata duettando con l’altrettanto rappresentativa del genere Richard Dawn. Senza dimenticare l’r&b esasperato di “Death Spiral”, in cui un Justin Timberlake melodico lotta contro l’incedere pesante delle distorsioni sintetiche di un sample della colonna sonora de “La donna che visse due volte”. Malgrado il grande sforzo nel maneggiare un genere nuovo per le mani di Longstreth, “Dirty Projectors” è anche e soprattutto un album dai toni amari di un abbandono, di una perdita che non è solo amorosa, ma anche di un pezzetto di sé. Dalla forza malinconica di questi pensieri arrivano la dolce “Little Bubble” sulle illusioni e le riflessioni sulle relazioni di “Work Together” e “Winner Take Nothing”; quest’ultimo brano si rivela, poi, una piccola perla narrativa della relazione con la Coffman, in cui la voce di Longstreth è l’unica costante tra percussioni, vibrazioni elettroniche e persino un sample di xilofono che variano continuamente come i vissuti dei due amanti.
L’abilità da trasformisti dei Dirty Projectors è innegabile, come la capacità di essere in costante divenire del progetto. Mentre lo sperimentalismo e la scomposizione melodica di Bon Iver viene da una svolta decisamente improvvisa, quasi una rottura, il nuovo lavoro di David Longstreth è frutto di una ragionata crescita verso un approccio al soul che pare stia divenendo una culla di idee interessante per il pop contemporaneo e futuro (si vedano gli ultimi XX, Blood Orange e Kanye West). Non resta che seguire con sempre maggiore curiosità la dialettica di un artista che malgrado le sferzate del destino non accenna ad arrestarsi.
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autore: Gabriele Senatore