Dispiace che un disco del genere non venderà che poche copie qui da noi, ma bisogna essere realistici. Un peccato pensare che tanti artisti che cavalcano l’onda del new-roots alla fine un paio di bicchieri se li ripagano ma che poi in questo mondo difficile se non hai il giusto taglio ‘indie’ sei destinato ad occupare una posizione di nicchia dalla quale difficilmente poi ne esci fuori.
A meno che uno non ci stia comodo nella nicchia, e l’idea che ci si fa di The Low Anthem è proprio questa: distanziarsi dalla massa proponendo una musica più ispirata e sincera ma poco fashion-appeal, in grado di ‘essere sul pezzo’ anche tra vent’anni, visto che seppur fosse uscito trent’anni fa, questo disco, sarebbe stato uguale.
Poi come i vini migliori (ma anche certi dischi) questa roba non invecchia mai. E tutto questo preambolo vale solo per l’Europa, poichè in America, almeno per il momento, i nostri sembrano ben indaffarati, altro che nicchia.
Questo disco sembra voler continuare la tradizione del genere definito ‘americana’, (qualcosa che è nel DNA musicale di quel paese e quindi non nel nostro) arricchito di suggestioni più moderne, evolute ma pur sempre sostanzialmente uguale a sè stesso. E’ il punto in cui il folk, il country, la ballad e tutto ciò che è ‘roots’ va a confluire (e se non fosse stato per i Red Red Meat poi Califone non staremmo neanche qui a parlarne di certe cose, visto che non vedo molti fan di Emmylou Harris qui intorno).
La differenza è che i Low Anthem però riescono a non cedere a nessun altra tentazione, e di questo bisogna esser fieri di loro.
Dicevamo che i nostri sono molto indaffarati (in ‘quel paese’ conservatore e reazionario, per queste cose hanno tempo e passione) tra Clearwater Festival (la cui headline è formata da gente come Pete Seeger e Arlo Guthrie per chi non avesse capito il clima e di cosa stiamo parlando), New Orleans Jazz Festival ed un’apparizione al David Letterman Show a cantare l’opener di questo lavoro, Ghost Woman Blues. E fin dall’inizio la nostra dura corteccia europea si trova di fronte ad un problema culturale: ne intuisce l’ampiezza del respiro, la bucolicità del paesaggio, l’aria intorno alla Into The Wild con un Michael Stipe al posto di Eddie Vedder ed il piano invece della chitarra, ma non riusciamo a farci trasportare.
Reminiscenze nel timbro vocale di mille ascolti danno un senso di familiarità, ma non è la nostra famiglia. Apothecary Love per esempio, al Newport Folk Festival del 1974 dopo l’esibizione di Dylan avrebbe rasserenato tutti quei pacifisti arrabbiati per il tradimento della svolta ‘elettrica’ del loro eroe, ma noi che ce ne facciamo?
Boeing 737 avrebbe invece esaltato proprio chi apprezzò del Bob quella nuova veste, ma l’attenzione cala subito dopo con Love and Altar perchè le armoniche alla Neil Young e la lentezza dei Low non restituiscono nell’insieme quello da che questi elementi ci si aspetta. E’ pur sempre un bel torpore, per carità, ma sempre di torpore si tratta. Forse è colpa della noia che ci portiamo addosso, è dentro di noi e non ci si può far nulla. Matter of Time, liturgia di harmonium ed armonica simil R.E.M. sotto lexotan è esteticamente perfetta per quando abitualmente ci sediamo sulle panchine di Providence leggendo romanzi di Cormac McCarty.
Burn addirittura sfoggia la sega a nastro dei Black Heart Procession, ma se in quel tipo di gruppi quello che ci piace e ci affranca è la sofferenza e la disperazione palesi, qui non c’è quel tipo di sentimenti ad ispirare; è piuttosto una serenità, una tranquillità quasi irritanti. Hey, All You Hippies forse è la migliore perchè ci ridesta un pò nonostante la petulanza dell’organetto (i nostri l’hanno ‘dedicata’ a quello sceriffo di Ronald Regan).
Smart Flesh in chiusura è forse quella che più lega The Low Anthem a tutta quella generazione di outsiders dell’alternative roots come Drunk, Bevel, Orso e sad and beautiful vari, agghiaccianti ritratti di poetica minimalista americana post 11 settembre, di quelli che guardano alla finestra, si lasciano crescere lunghe barbe e dicono di ‘no’, aspirando ad uno stile di vita più semplice, quasi rurale nei suoi valori, sperando di recuperare l’innocenza perduta del vero sogno americano.
Tutto questo mi sembra un film già visto, mi ricorda l’America durante il Vietnam: a questo giro io passo.
Autore: A.Giulio Magliulo
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