Passano gli anni, ma la cantautrice del Dorset non perde il suo smalto, così come continua a non sbagliare un disco. Tra gli artisti inglesi della sua generazione rimane una splendida quarantenne (quarantaduenne per la precisione), meritevole di attenzione e che sicuramente resterà negli annali della storia del rock. Già perché la Harvey non ha mai seguito le varie mode musicali del suo Paese, ma ha sempre fatto un percorso autonomo, caratterizzandosi per un iniziale approccio american-oriented; quindi si è dedicata a delle sperimentazioni elettroniche, per poi proseguire con lavori intimi, fino alla (ri)scoperta delle sue radici folk, come in “White chalk” ed in quest’ultimo disco. Questo percorso le ha permesso di avere un’autorevolezza che in pochi hanno tra gli artisti della sua generazione: mi vengono in mente soltanto i Blur e i Radiohead, per il resto, il nulla.
Il suo percorso artistico è dunque costellato da lavori sempre ben riusciti, che non hanno mai concesso nulla tanto all’effimero quanto alla ripetitività, ma al contrario si sono sempre caratterizzati per la sua volontà di rinnovarsi e cercare nuovi orizzonti sonori, e se non perfettamente riusciti, almeno di profondo rispetto.
Per “Let England shake” PJ Harvey si è fatta affiancare da pochissimi e fidatissimi amici, vale a dire il solito John Parish, con il quale ha co-firmato due splendidi dischi, di cui il secondo precedente a questo, Mick Harvey, da poco fuoriuscito dai Bad Seeds di mister Nick Cave e che in precedenza ha già lavorato con la nostra cantautrice, Jean-Marc Butty ex Venus, che ha suonato dove serviva la batteria; mentre come fonico è stato chiamato ancora una volta Flood.
“Let England shake”, registrato in una chiesa del Dorset, è stato definito il “war album” dato che il conflitto è il tema portante dell’album. Tuttavia, da grande artista quale è la Harvey non fa il solito discorso morale, ma preferisce criticare la guerra nel suo significato più generico, vale a dire come un teatro di orrori e costante disumanità, dato che non ci sono mai stati nella storia umana, e purtroppo non ci saranno mai, periodi senza guerre.
La scrittura di queste dodici canzoni si caratterizza, per la prima volta nella carriera di PJ, per aver composto prima i testi e poi le musiche. Questo è un aspetto intrigante in quanto se in questo disco ed in quello successivo, quello co-firmato con John Parish “A woman a man walked by”, la nostra cantautrice si esponeva al pubblico nuda rispetto alle sue angosce, dovute essenzialmente ad uno storia d’amore terminata, con “Let England shake” il centro del suo universo non è più sé stessa.
La Harvey, invece, si apre sul mondo, nel quale vede in primo piano i conflitti. E purtroppo non potrebbe essere altrimenti, dato che essendo inglese, è cittadina del paese che nella storia moderna è stato il principale colonizzatore del pianeta.
L’album si apre con la title-track nel quale il cantato è piuttosto evocativo ed il sound distaccato, elegiaco e ritmato, efficace nel creare un tappeto sonoro ad una descrizione di immagini solo apparentemente in lontananza suscitando un senso di avvicinamento e di allontanamento, quasi a fisarmonica.
Se in “The last living rose”, nella quale è presente un intrigante assolo di sax, suonato dalla stessa autrice, c’è molta malinconia per ciò che non è più, al punto tale che inizia con una quasi bestemmia, e nella quale vengono maledetti gli europei. In “The glorious land”, introdotta da un campionamento di tromba da esercito della salvezza, la Harvey si domanda quanto il suo paese abbia seminato “il bene” per il mondo; il tutto corredato da chitarre scandagliate e che scivolano sempre più verso il basso e dall’intervento vocale dei tre musicisti che diventano un supporto essenziale per alimentare il senso di sconfitta morale della “terra gloriosa”.
Il brano usato come primo singolo “The words that Makerth murder” consta di tre strofe, ognuna inizia con questa frase “I have seen and done things I want forget”, per poi proseguire con le nefandezze che uno scontro armato comporta e soprattutto ciò che resta impresso nelle menti dei soldati. Questo brano ruota tutto attorno all’intreccio tra l’autoharp e le chitarre con una ritmica che evolve la traccia verso un’angosciosa e macabra ballata da cui non se ne esce sereni, ma è in grado di trasmettere tutte le angosce che una guerra comporta. Il brano è uno dei punti più alti del disco perché profondamente politico e spinto da una morale umana che ovviamente non appartiene mimamene ai politici ma soltanto ai veri artisti.
Non è un caso, infatti, se Patti Smith ha affermato di essere rimasta folgorata da questo brano, che non sfigurerebbe nella discografia di Nick Cave. “All & everyone” vive l’ambivalenza di essere allo stesso tempo inquietante ed evocativa, velatamente aggressiva e decisa nella quale la morte viene descritta come elemento presente dappertutto specialmente negli occhi dei soldati. Discorso a parte per “On battleship hill” traccia che permette alla Harvey di riuscire nell’esperimento di mettere insieme liriche ottocentesche con melodie post-punk.
La sua “England” è un inno alla disperazione che la sua nazione comporta, un paese che lascia tristezza, ed è suonata in maniera assolutamente scarna, in modo che prevalga più che in altri brani la sua voce ed in particolare la sua commozione che emerge con un cantato triste, trattenuto e quasi non riesce ad urlare la sua profonda angoscia.
“In the dark places” e “Bitter branches” sono gli unici brani che rievocano, seppur lievemente, i suoi primissimi lavori grazie ad un incedere deciso nel quale non viene repressa una certa aggressività. Con “Hanging in the wire” ci si riavvicina alle atmosfere cupe ed intimiste di “White Chalk”, grazie ad un modus operandi sensuale e lascivo.
Per “Written on the forehead” vengono utilizzate delle sperimentazioni semi-elettroniche con richiami reggae e alla world music di Peter Gabriel mentre nella conclusiva “The color of the earth” vengono recuperate le radici folk inglesi che sostengono un testo nel quale viene descritta la struggente perdita in guerra di un carissimo amico.
In questo primo scorcio del 2011 sono usciti pochi dischi interessanti, il migliore è sicuramente “Let England shake”, che difficilmente non sarà nella top ten di quest’anno.
Autore: Vittorio Lannutti
www.pjharvey.net