Quello che impasta le musiche se ne sta appollaiato su un tavolo di plastica bianca, un campionatore tra le gambe, di quelli con una piccola tastiera pare, poggiato su un ripiano di legno antico. La sua faccia è quella di un giovane Martin Sheen o, meglio, di un ancora splendente James Dean: i capelli lisciati all’indietro dalla gelatina, la canottiera bianca di un qualsiasi ragazzo americano alle prese con una torrida estate (interiore). Ha gli occhi chiusi, e le cuffie sulle orecchie, ogni tanto preme (dei tasti) sullo strano strumento argentato, sembra quasi che lo faccia svogliatamente, ma in realtà la precisione di quello che suona è estrema. Linee di basso profonde, sotterranee, che scavano come metropolitane nel fondo dei corpi di chi è lì ad assistere, e poi rumori effetto neve, distorsioni, trombe che spuntano dal nulla, batterie meccaniche, ferraglia urbana (e non) assortita.
Intorno a lui tre figuri camminano curvi, tre microfoni stuprati, abusati, sconfitti; l’idioma è americano, ma l’impressione è quella di avere il mondo intero, questa sera, su questo palco: nell’oscurità si intravedono colori arabi, tratti orientali, occhiali da nerd.
Ognuno di loro ha un’inflessione diversa, le voci sono basse, profonde, rabbiose, strascicate, filtrate, sputate, sbavate, urlate; sotto luci rosse i tre si spingono e si avvicendano, si danno il cambio, a turno si prendono il diritto di parola.
Uno di loro poi si toglie le scarpe, ed è lo stesso che di lì a poco se la prenderà con il microfono, come se non fosse abbastanza adatto a lui, come se non fosse abbastanza, per lui.
Un altro è quello con il rappato più preciso, più attento all’ortodossia hip-hop, il cappello calato sugli occhi, scende tra di noi a coinvolgerci, e riceve pure la sua brava canzoncina di buon compleanno.
L’ultimo si aggira nervoso, sembra avere problemi con il microfono pure lui, ma declama le sue rime calmo, spiega discorsi, come per farci capire, metterci al corrente di quello che sta succedendo qui e adesso.
Perché stasera le parole sono tante, è un concerto rap questo, anzi questo è hip-hop, tre microfoni e un campionatore: è tutto ciò che serve da portarsi in giro e fare musica. Strumenti piegati al volere di persone che sanno cosa vogliono: sono giovanissimi questi Kill The Vultures eppure sono qui in giro per l’Italia a portarci la loro musica, c’è da pensarci su questo, e pure molto.
Quello che dicono è incomprensibile ai più, le basi scurissime quasi in modo inquietante, questa è musica che nella sua sporcizia morbosa di certo non è così accessibile, è il suono della metropoli più dannata questo, eppure la folla a ridosso del palco è tanta: spettatori casuali che magari non ci penseranno nemmeno, a comprare il disco, ascoltatori che mai più ascolteranno queste canzoni, è più che probabile, però di sicuro nella loro mente resteranno le immagini e i suoni di questo concerto: movimenti scomposti, suoni taglienti, voci perenni… e poi sullo sfondo proiezioni di videogiochi frenetici, traffico notturno, edifici che crollano.
In apertura gli Amari avevano dato un bel saggio del loro fantasioso meltin’pot sonoro: hip-pop (come meglio definire il loro coloratissimo pop rappante?), funk e fantastiche digressioni psichedeliche. Neon colorati intonati alle maglie dei musicisti, e testi che si fanno seguire con attenzione. Ancora poco conosciuti a Napoli (sebbene qualcuno tra il pubblico cantava i testi a memoria)
A fine serata breakdance spontanee nasceranno tra il pubblico napoletano, atletici b-boys e fly-girls su tacchi a spillo, mentre gli americani guardano e scattano qualche foto; infine loro, i musicisti, si siedono sui divanetti, appartati, stanchi, spossati, sorseggiano acqua minerale, tranquilli come può essere solo chi sa di non aver sprecato un’altra giornata della propria vita.
Ammazzate tutti gli avvoltoi ora, adesso, subito.
Autore: Lucio Carbonelli
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