La storia di un uomo che si fotografa per sentirsi meno solo. Questo è Fotofinish, ultimo lavoro del duo Rezza-Mastrella, approdato, dopo gli ottimi esiti delle programmazioni mensili di Roma e Milano, sulle illuminate tavole della Galleria Toledo di Napoli.
Lo spettacolo rappresenta il tentativo di stabilire un nuovo scarto dalla loro consueta “misura” teatrale, basata su monologhi acuti e desolati, sulla smorfia tiratissima, con l’attore intrappolato in macchine colorate che ne limitano il movimento in un fare ancor più claustrofobico. Questa volta invece, mettendo in scena una corporeità più spiccata, una conseguente vitalità irrefrenabile e spaventosa, un recitato più umano, ed un finale di irresistibile pecoreccio, Rezza crea un vero e proprio stato di realtà altro, arruolandosi ed arruolando gli spettatori inconsapevoli alla guerra, allo sterminio, in una sospensione delle regole, una deriva dell’ irrappresentabile in luogo del rappresentabile, che è del migliore teatro.
Questo quello che ci dicono, in modo inconfondibilmente “crudele”, di opera e vita, ed ancora di padri illustri ed ingombranti:
A te che dici di essere il figlio di Cristo, non viene il complesso di Edipo?
Antonio: …io non sono il figlio di Cristo, lo dico per scherzare…mi sento molto di più.
Di più !?
Si, sento che potrei, con il consueto impegno, fare quello che ha fatto Cristo, con un’estetica forse anche migliore.
Per quanto riguarda il rapporto con la parola scritta, credi che il barocco dei tuoi scritti, regga senza la presenza così totalizzante del tuo corpo?
Non me lo pongo il problema, perché a teatro mi baso sull’opera di Flavia, comunque non faccio un teatro di parola, mi interessa quello che nasce dall’ indossare di volta in volta questi strumenti. In questo caso si deve parlare solo dell’aspetto visivo: faccio cose da vedere prima che da capire.
A tal proposito, con le macchine da scena di Flavia scompaginate il normale concetto di scenografia inteso come cornice all’interno della quale l’attore recita dandola per scontato, in questo caso la scenografia diventa attore.
Flavia: infatti non è scenografia, è arte applicata al teatro, sono sculture.
Com’è nata quest’idea, ed in generale, come interagite all’interno del processo creativo?
Flavia: come le macchie di Rorschach: io faccio queste macchie ed Antonio le riempie.
Lavorate separati?
Si
In momenti distinti?
Si
C’è una continuità espressiva tra il vostro lavoro di cineasti e quanto portate al teatro?
Antonio: sicuramente facciamo delle cose che cambiano in relazione ai cambiamenti che subiamo noi come persone. Infatti non scriviamo spettacoli ogni anno perché somiglierebbero necessariamente a quelli dell’anno precedente: bisogna cambiare per cambiare.
E’ normale che, se facciamo l’anno prima, nello spettacolo ci saranno dei rimandi, non tanto stilistici, ma ontologici, di come siamo.
In questo spettacolo c’è una forte presenza del corpo, sia tuo che del pubblico che volente o nolente vi si trova coinvolto: qual’è il tuo rapporto con il corpo? A me sembra mistico, di scarificazione, di body art, in certi momenti di questo spettacolo sembri Vito Acconci…
Antonio: Mi muovo come non mi muovevo 10 anni fa. Non avverto ancora il deterioramento del corpo, ma è inevitabile che ci siano sempre meno anni per averlo così in forma. Credo che se lei [Flavia] avesse realizzato le stesse macchine 10 anni fa, io mi sarei mosso meno. Adesso mi muovo in modo eccessivo, come mai prima, perché queste macchine mi ci costringono, è una cosa talmente simbiotica che non saprei spiegare il mio rapporto col corpo senza.
Flavia: L’importanza del corpo si comprende quando si va verso un’età adulta, quando si capisce che è a termine. Abbiamo fatto per anni un lavoro su un corpo sezionato, imbrigliato nelle macchine, coperto dalle stoffe; ad un certo punto è arrivato ad entrambi nello stesso momento il desiderio di vederlo questo corpo, così ho lavorato a queste macchine ed Antonio ha fatto diventare il tutto quasi una danza.
Per quello parlavo di mistica: di privazione del movimento, di sacrificio.
Flavia: Antonio è frustato da Armando (Novara, l’attore in scena con Rezza) sul palco, ma è già di per se fustigato dagli attrezzi che usa in scena, inoltre sono anche le sculture ad essere torturate da Antonio, è un gioco masochista.
Ed il rapporto con il cibo? Nello spettacolo c’è un riferimento in merito.
Antonio: devo alimentarmi per fare quello che faccio, spesso faccio pure merenda…(sorride). Comunque non sono uno che perde la testa per un buon piatto.
Flavia: nel digiuno ci sono le visioni. E’ proficuo.
Antonio: però se non mi alimentassi perderei di brillantezza, sarei più sofferente, ma quello che piace a noi è mettere in scena un martirio brillante.
Com’è nata la smorfia archetipica di Rezza?
Antonio: In questo spettacolo è tutto diverso. Comunque mi esce naturale. E’ che nei precedenti spettacoli usavo quadri di scena, l’esatto contrario della maschera: mentre tutto il corpo è coperto, il viso è libero, e perciò deve diventare superespressivo. Se contrai la faccia, aumenta il chiaroscuro, diventa qualcosa di ancora più netto.
Questa fotografia si può rintracciare anche nei vostri lavori video, come anche in quelli di Ciprì e Maresco…
Antonio: Io penso che con Ciprì e Maresco non c’abbiamo niente a che fà.
Flavia: loro sono più drammatici, non hanno una speranza come la nostra. Nel nostro spettacolo c’è più vitalità.
A proposito di speranza, venite spesso inscritti nell’universo pasoliniano per molte vostre “liminalità” di temi e di linguaggio: anche per voi, come per Pasolini, la parola speranza è bandita dal vocabolario?
Antonio: per me si, quello di cui parlava Flavia non è la speranza in senso tradizionale. Noi non speriamo, però c’è la gioia di vivere, che non è speranza, è incoscienza.
In questo senso mi viene in mente Deleuze, il suo concetto di macchina desiderante.
Antonio: Si, ci hanno spesso accostato al pensiero di Deleuze.
Sempre sui “maestri di pensiero”: quanto c’è della crudeltà di Antonin Artaud nel vostro teatro?
Antonio: Non avevo mai letto una riga di Artaud, poi un suo studioso 7-8 mesi fa ci ha menzionato tra i prosecutori della sua estetica, consigliandoci di leggerlo. Ho letto qualche stralcio, ho comprato tutti i libri di Artaud e non li ho letti, non mi piace leggere. E’ un ricorso storico…potrei essere la sua reincarnazione, pensa che fino a qualche tempo fa Flavia mi chiamava Antonino: comunque come riferimento meglio lui che molti altri.
Tipo Ciprì e Maresco?
Antonio: Beh, non c’è paragone! Siamo meno amati dalla critica perché, rispetto a loro, non abbiamo quell’ammiccamento situazionista. Noi non citiamo un cazzo…siamo autoreggenti.
Nemmeno il futurismo di Petrolini, coi suoi gesti istrionici?
Antonio: Inconsciamente può darsi.
Flavia: Ma certe manie, certi gesti, si ritrovano ancora in strada, nella realtà che noi guardiamo.
Quindi, in fin dei conti, fate una riflessione sulla realtà?
Flavia: si, perché è quello che non ci piace. Però nella nostra drammaturgia non c’è mai spiegazione, o soluzione, ognuno nel decodificarla può metterci del proprio. Sono frammenti di realtà, capovolta.
Antonio: noi siamo pronti per passare alla storia, ancora giovani.
Sarebbe il caso.
Antonio: anche gli intellettuali spesso ci aiutano a non morire, con le loro retrospettive o le loro nottate, come Ghezzi che è un nostro grande estimatore, ma non so fino a che punto comprenda la nostra naturale superiorità.
Stasera è andata bene.
Antonio: si questo è un pubblico superiore in vitalità a tutti gli altri.
[dilungandosi su dettagli dello spettacolo in cui si mostra nudo, il divino ci congeda con una chiosa ineguagliabile]
Nella scena in cui faccio la donna…m’esce, come dicono a Roma, abbastanza “barzotto”, poi chiaramente alla seconda uscita, col freddo e la tensione, “si riduce”.
Io credo che la verità sta nel mezzo.
Autore: PasQuale Napolitano (thanks to Nicola Guarino)
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