di Marco Sica
Se è vero che l’uomo ha codificato il proprio linguaggio per la precipua necessità di esprimere concetti, pensieri, emozioni e con essi per comunicare e condividere, estendendo il valore del λόγος tanto al significante assunto eracliteo di legge universale, quanto al necessario ascoltare per far proprio di Heidegger, nel tempo tale primigenia molteplice funzione è stata corrotta da un afono individualismo spesso carico d’artate e strumentali censure.
Accade così che intervenga l’arte, per restituire al linguaggio il suo scopo e attribuirgli nuovamente il senso che presso esso era in principio, nell’uomo e tra l’uomo, liberato da sovrastrutture teologiche ed enunciato nell’affermazione: “In principio era il Linguaggio; il Linguaggio era presso l’essere umano; l’essere umano era il Linguaggio”.
Ebbene, seguendo queste coordinate, si è svolto il duplice incontro con Silvio Barbiero tenutosi presso il Teatro Popolare dell’Ex OPG di Napoli.
L’attore e autore ha, infatti, presentato due scrittori contemporanei, Tiziano Scarpa e Giovanni Testori, che hanno fatto del linguaggio la loro forma espressiva più significativa; un linguaggio però umanizzato e rielaborato, nella semantica e nelle immagini, in un esperanto di lingue ataviche, vernacolari, classicheggianti, fantasmatiche, tese alla narrazione di tematiche al contempo delicate, caustiche e dirette, nel solco dell’antica arte poetico-teatrale che, dai testi scatologici ipponattei, arriva sino alle crude abrasioni di Daniele Ciprì e Franco Maresco.
In particolare, Barbiero ha dapprima curato un workshop improntato sui testi di Tiziano Scarpa tratti “Groppi d’amore nella Scuraglia” e successivamente messo in scena l’“Edipus” di Giovanni Testori.
Mentre con Tiziano Scarpa ci si è calati nel mondo di un invocato, ritardatario e inchiodato Gesù “M’accapisci, Gesù? Addiquà lu regno tuo non s’è vistato ancora … Inchiudato a lu crucefisso te ce abbi a starcere, a scureggià pissempre cuntra lu legno putro ne lu profundo del l’unferno! Picché pe culpa tua chistu munno iè l’unferno” e del suo creato regno animale al quale, al pari di Adamo, Scarpa dà nome, identità e azione … “Lu cane canaglio ce annusa lu culario de li cani fimmeni, ce annasa lu culario de le cane ommene, ce annusa lu culario a tutto lu munno. Lu cane canaglio nunnè timido” … “Lu bombo muscario iè l’anema che vola pesanta, iè l’umbra agrassa e nigra de li fiori che ce porta l’ammore virgogno e pilloso” … “Lu surcio pantecano ce se strufigna ne li pozzanghi de muffo. Tene lu pelliccio appurcato de tutti li prufumi de lu munno”, con Giovanni Testori è il mito a essere ribaltato, per abitare un nuovo ruolo descrittivo, non più oltre i limiti del pensiero, ma della fattiva realtà quotidiana.
“Uno dei mali del teatro di oggi, soprattutto di quello impegnato – spiega Barbiero – è la vanità con cui gli attori tentano di sedurre il pubblico attraverso un programmato e artefatto utilizzo dell’intelligenza che diventa, così, un mero intellettualismo. Nei testi che rappresento, invece, non ci sta spazio per nulla di costruito, vivendo in essi un’asfissia dell’intelligenza ed essendo mossi da forze ottuse. È abbattuta la quarta parete e la rappresentazione è esplicata solo attraverso la condivisione emotiva e l’interazione attiva con il pubblico. Ciò anche nella trattazione di tematiche impegnate. Mi piace un teatro viscerale dove si recita con i nervi e con i muscoli”.
E a ben vedere e sentire, la fisicità di Barbiero (splendidamente espressa sia come un sapere trasmesso nella didattica nel workshop che come empatico ponte con la platea in scena), fatta di corpo, voce, gesti e mimica, come un “cane canaglio” avvinghiato alle caviglie del pubblico, ha morso con rabbia l’urgenza di comunicare, azzerando ogni distanza tra l’attore e i suoi interlocutori, facendo entrare senza veli il teatro nelle strade e le strade nel teatro.
“Viviamo un’epoca in cui vi è una duplice difficoltà nel comunicare e nel creare una dialettica costruttiva – osserva Barbiero – La tecnologia e i nuovi social hanno creato, sostituendosi agli spazi comuni, un isolamento individuale, in cui l’unica forma di confronto è lo scambio di poche battute da dietro una tastiera. A ciò va aggiunta la censura che, nel suo contante ed eterno esistere, pone un veto su taluni temi e argomenti. Da qui la forza dei testi di Scarpa e Testori che riescono, con il loro linguaggio a enunciare, ciò che va detto ma che non sempre è permesso dire”.
E così, se senza censure “Groppi d’amore nella Scuraglia” ha percorso il calvario dell’umanità, per crocifiggere Cristo alla sua assenza e inettitudine “Sí nu fallamento, Gesù … Sí nu fallamento cumpleto. Sí nu iddio imputento, Gesù. Io ce lu sappio picché tu ce reprovi. Ce prifirisci de fartece cupatí. Ce prifirisci de startece ne la chiesa muffa, a la crucetta su la cullina, su lu crucefisso sculastico, ne le bumbe sicche de la vidova Capecchia. Sí nu iddio che non sapi farcere lu mistiere tuo. Su nu iddio che ce prifirisci lu cumpatamento e li carezzi”, nell’“Edipus” si è superato il confine Freudiano tra conscio e inconscio e le scissioni Lacaniane e si è messa in luce la colpa di un Edipo “scarrozzante” guitto consapevole … consapevole omicida del padre; consapevole castratore del padre; consapevole sodomizzatore del “culo sociale” del padre; consapevole dell’incestuoso accoppiamento con la madre (“forcuta … porca e porchissima … vacca di un vacca” dalla “figa incoronata”) per sostituire, in lei, il suo sperma a quello paterno.
Tra dramma e satira si è, dunque, compiuta l’eterna denuncia della necessaria evirazione di un potere (“Ego Laio … Rex e Pontifex Maximus”) e della sostituzione dello stesso, vecchio, con uno nuovo, mentre disperato urla il bisogno di riscatto di un popolo “mandria de buoi e de pecore”, l’unico tragicamente destinato alla perenne cecità.
Foto di Nina Borrelli