E’ sempre difficile giudicare della prova solista di un membro di una grande band, tanto più se il membro è anche il leader, nonché vocalist e l’autore delle melodie e delle canzoni che hanno reso famosa la band in questione, tanto da caratterizzarla con suo personale segno indelebile.
Di fronte c’è sempre la domanda classica dell’ascoltatore: “ce n’era davvero bisogno?”, domanda che rimbalza sull’autore come sfida, perché ogni prova solista dovrebbe dimostrare da una parte la fedeltà ai canoni musicali della band di appartenenza e contemporaneamente la natura altra o diversa dell’album, che soltanto può rendere giustificabile il cimentarsi con un progetto collaterale alla carriera di gruppo.
Nel caso di Paul Banks, leader dei newyorkesi Interpol, una delle band di maggiore successo di pubblico e critica dal 2000 ad oggi, tanto da poterla definire l’innovatrice principale della new-wave del terzo millennio, la posta è ancora più alta.
Intanto perché Banks aveva già prodotto un album solista, ma sotto il nome di Julian Plenti, nel 2009, quasi a voler nascondere il legame con gli Interpol.
Adesso a questa sfida Banks ha risposto con un nuovo album, significativamente chiamato proprio Banks, che reca il marchio inconfondibile non solo del suo nome vero, ma soprattutto del sound indie-new wave degli Interpol, put portando un vento lieve di differenza, caratterizzata soprattutto da una maggiore solarità e un maggiore romanticismo intimista (rispetto ai toni tendenzialmente cupo-malinconici del primo ma anche del quarto e per ora ultimo album della band), come è giusto che sia per un progetto appunto solitario e individuale, che nasce evidentemente per esprimere esigenze non praticabili con il marchio del gruppo.
Questa nota si traduce in melodie più pop, con una struttura meno tipicamente rock (il classico sound batteria-basso-chitarra, fni qui rigorosamente tenuto dagli Interpol come band) e una chitarra elettrica sempre presente ma meno incisiva e graffiante, meno protagonista insomma, aiutata in questo dal produttore Peter Katis, (già in aiuto di Jonsi dei Sigur Ros per il suo album solo), noto per i lavori con i The National.
Sembra voler annunciare tutto questo il pezzo iniziale e primo singolo, The Base, introdotto da un loop di piano ipnotico e dalla voce magnetica e suadente di Banks, che ovviamente è il vero e forte collante di quest’album con la tradizione Interpol. Ed è soprattutto nelle pause ritmiche del brano, quando la voce non è più distorta ed è sorretta solo dal piano, che si può percepire una certa lontananza dal solito sound.
Più tipicamente Interpol è Over my Shoulder, con giri melodici assolutamente riconoscibili da un fan della band, tanto che il pezzo potrebbe tranquillamente essere un B-side della discografia della band newyorkese (e sarebbe un B-Side di tutto rispetto).
Arise Awake, con il suo dolce arpeggio iniziale, e una composizione melodica che ricorda i Suede, segna ancora qualche interessante novità, mentre la solare Young Again restituisce in parte il Banks solista alla sua band, salvo quella maggiore solarità e i toni più intimi, immediati e autobiografici del pezzo, che sono invece un elemento di differenza.
La strumentale Lisbon, anch’essa molto luminosa e solare nella sua melodia, mette in gioco una orchestralità insolita di strumenti che la rende uno dei pezzi più interessanti, mentre I’ll Sue You ritorna a una maggiore familiarità col genere che ha reso Paul Banks famoso, come anche, e forse ancor di più, Paid for That.
Another Chance è invece uno strano episodio strumentale, non molto riuscito, ma di sicuro abbastanza straniante e lontano dai soliti lidi, mentre No Mistakes si muove lungo la scia del resto dell’album, che si conclude con un pezzo indiscutibilmente Interpol (salvo la insolita conclusione acustica) quale Summer is Coming, al punto da farci sospettare un suo utilizzo riciclato da qualche traccia scartata degli album precedenti.
E’ come se Paul cercasse continuamente di destreggiarsi fra il sentiero ben scolpito in questi anni e che tanto gli ha reso, e le esplorazioni nel nuovo e incognito percorso musicale che man mano si delinea nel corso dei pezzi.
Alla fine dell’ascolto, la domanda tipica per i side-project solisti resta quella: è un album talmente diverso dai canoni della band da giustificare la scelta solista del leader? Nel caso di Banks la risposta è difficile, e questo è già un buon segno per il suo autore.
Non è facile infatti districarsi in questo lavoro fra quanto potrebbe essere materiale Interpol e quanto invece è innovativo e sperimentale, quantomeno diverso dal marchio di fabbrica.
Ed ecco l’impressione finale che se ne ha: è come se a suonare fossero gli Interpol, ma alla ricerca di nuovi percorsi melodico-strumentali, soprattutto in fase di arrangiamento e post-produzione, pur senza stravolgere la loro eredità musicale.
Ne viene fuori un album che non è certo un capolavoro (come raramente lo sono gli album solisti), ma è intanto piacevolissimo ad ascoltarsi e contemporaneamente non immediato e facile, al punto da crescere e guadagnare ad ogni ascolto successivo.
C’è da dire che non ci si poteva aspettare di meno da uno dei membri della band che forse più di tutte in questi ultimi anni ha rivitalizzato il rock melodico tradizionale senza cadere nel commerciale (come, ad esempio, i Killers che pure esordirono nell’ambito dello stesso vento atlantico indie), per cui concediamogli pure di essersi congedato momentaneamente dal suo gruppo senza che questo congedo rappresenti, musicalmente, una vera e propria svolta.
Non è però puro divertissement o una distrazione dalla sua ricerca, e anzi contiene momenti lirici veramente notevoli anche se non amplificati ma al contrario volutamente minimalisti, e questo è un gran punto segnato, ancora una volta, da uno dei più talentuosi autori di rock melodico degli ultimi tempi.
Questa la tracklist del disco:
1. “The Base”
2. “Over My Shoulder”
3. “Arise, Awake”
4. “Young Again”
5. “Lisbon”
6. “I’ll Sue You”
7. “Paid For That”
8. “Another Chance”
9. “No Mistakes”
10. “Summertime Is Coming”
Autore: Francesco Postiglione
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