Nell’attesa di Morrissey, il palco è occupato da un microfono solitario e un drappo bianco su cui passano vari video anni ’60-’70: i primi sono i Ramones, poi c’è Brian Eno, i New York Dolls, varie dive, il toro che incorna il torero, e così via, perfino la regina che alza il dito medio, e uno sbeffeggiamento alla Tatcher morta! Come a dire: questa è la mia cultura. Poi entra lui, e ci si rende conto che un pezzo di quel mondo lì esiste ancora, per fortuna. Il concerto infatti – ovviamente – si rivelerà fantastico e commuovente, e non certo perché Moz ha annunciato di avere il cancro (“Se muoio muoio, e se non muoio non muoio”).
Morissey è in gran forma, si dà tutto al suo pubblico, scherza, fa le linguacce, stringe mani. Siamo esseri umani, abbiamo bisogno di essere amati. Moz apre incredibilmente con “The Queen Is Dead”, e oltre a svariati pezzi solisti dal nuovo album e non, farà altri tre pezzi degli Smiths: “How Soon Is Now?”, “Meat Is Murder”, e un “Asleep” da lacrime sul finale.
Durante la canzone animalista per eccellenza scorre il triste video degli animali macellati, molto toccante, seppur vecchio: possibile che oggi sia ancora così, forse anche peggio? Moz l’avrà visto millemila volte, ma è comunque provato dalla visione, come noi del resto. All’ingresso c’è perfino un manifestino che fa divieto di introdurre e consumare carne e pesce di qualsiasi genere all’interno del locale. Intanto il sudore va a disegnare un cuore sulla schiena di Morrissey, jeans largo e casacca rossa; «Fuori piove, qui dentro avete me», dice con la solita ironica umiltà. Non possiamo far altro che ringraziare, felici.
Il gruppo è impeccabile, esteticamente e musicalmente; hanno pubblicato un nuovo disco, dice il Moz, lo possiamo ascoltare su youtube, se vogliamo, visto che – per dissidi con l’etichetta – è stato ritirato a tre settimane dell’uscita.
Il buon Moz parla molto questa sera, ma le uniche parole che pronuncia in italiano sono «Grazie» e «Mio privilegio», appena entrato, inchinandosi, pur avendo vissuto a Roma e amando molto il nostro bel paese: incredibilmente rivela che “I Know It’s Over” («Una canzone che non canterò mai più», dice, soffocando una risata) è stata ispirata da una vecchia canzone di Rita Pavone, “Heart” (?): «Le melodie sono molto simili, se ascoltate con attenzione».
Il colpo da maestro narcisista qual è arriva alla fine, un bis che dura lo spazio di una sola canzone purtroppo, alla fine di “Everyday Is Like Sunday” Moz si strappa la camicia indossata per l’occasione e la lancia al pubblico adorante (una tipa è perfino riuscita a salire sul palco e ad abbracciarlo) che, nel tentativo di guadagnarsene un pezzo, non ha nemmeno il tempo di vederlo a petto nudo: un attimo e lui è già scomparso. So long, Moz!
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autore/foto: Lucio Carbonelli