Secondo il parere di chi scrive, gli Avenged Sevenfold sono la più grande hard rock/heavy metal band degli ultimi dieci anni. La motivazione può essere ricercata nelle enormi capacità tecniche dei musicisti, nelle spiccatissime doti compositive, nelle folle di ragazzi che urlano ai concerti i loro nomi e cantano a memoria le loro canzoni, nella forte immagine adottata, nelle milioni di copie vendute nell’epoca in cui i dischi non si vendono più, e, ultimo elemento, il primo posto, difficilmente raggiungibile con un disco heavy metal, appena conseguito nelle classifiche inglesi con questo Hail to the King, risultato già ottenuto dai nostri in America in passato.
Gli Avenged Sevenfold, in ogni caso, saranno sempre amati dai fans tanto quanto odiati e disprezzati da coloro che, ritenendosi fruitori dell’unica ”vera forma di heavy metal” li condannano per l’immagine da bellocci palestrati e truccati (forse ignorando che gente come i Kiss, King Diamond, Immortal o Twisted Sisters non aveva quell’aspetto al naturale appena sveglia) così da ridicolizzare una proposta musicale validissima che (dopo due trascurabili album di metalcore californiano) frullando in un’unica formula Pantera, Dream Theatre, Guns n’Roses e Iron Maiden ha coniato ”l’Avenged Sevenfold Sound”, ora riconoscibilissimo in tutto il mondo, grazie a due capolavori come City of Evil (2005), Avenged Sevenfold (2007) e l’ottimo Nightmare (2010) con Mike Portnoy alla batteria.
Hail to the King è stato uno degli album più attesi dell’anno 2013. Accantonata l’esperienza commemorativa della morte di The Rev, l’eccezionale batterista co-fondatore della band prematuramente scomparso, coronata con l’album Nightmare del 2010, gli Avenged Sevenfold sono tornati in studio per dare alle stampe l’attesissimo seguito della loro saga discografica, annunciando clamorosamente una sterzata verso un sound più classicamente heavy metal rispetto a quello dei precedenti lavori. Probabilmente il risultato ottenuto, constatabile in questo nuovo Hail to the King, acccontenterà coloro che, dapprima più indifferenti, si avvicineranno alla band di Orange County per la prima volta e convincerà anche molti dei fans più affezionati, rischiando, però, di scontentare coloro che hanno iniziato a seguire il combo californiano per le sue prodezze tecniche e l’istrionismo che lo ha, nel bene o nel male, reso unico al mondo. Non ci sono i super assolo armonizzati, presenti di solito anche durante le strofe, ad opera di Synyster Gates e Zacky Vengeance, la batteria dell’ottimo e giovanissimo Arin Ilejay è più cadenzata dovendo fare da sfondo ai riff in stile Black Album (Metallica)/Black Sabbath; il groove è sovrano e si erge dove prima si inseguivano le melodie intrecciate di due chitarre fameliche e la doppia cassa a trecento all’ora; il basso di Johnny Christ, inoltre, è, finalmente, molto in evidenza. Doing Time, che ricorda i Velvet Revolver di Contraband (2004), e Requiem, con i suoi cori in latino, sono tra le canzoni più belle mai scritte dagli Avenged Sevenfold, This Means War e Sheperd of Fire sembrano essere un omaggio per nulla velato al sound settantiano e pesante dei Black Sabbath, con gli Iron Maiden di Final Frontier (2010) che si riconoscono nell’avvincente Coming Home. Acid Rain è la ballad conclusiva dell’album e con i suoi oltre sei minuti chiude un disco che verrà indiscutibilmente amato e ricordato da molti, pur essendo assolutamente privo dei guizzi di genialità dei lavori precedenti.
Due cose si possono dire, gli Avenged Sevenfold, capitanati da Matthew Shadows che si classifica migliore in campo ancora una volta con il suo splendido e rauco vocione, nella loro terza vita, e quindi con la seconda rinascita artistica, sono riusciti nell’impresa in cui Metallica, Guns n’ Roses e Queen li hanno preceduti (è opportuno a questo punto pesare bene le parole, lungi dal voler paragonare gli Avenged Sevenfold a questi immensi e indistruttibili pilastri del rock), cioè nella capacità di imprimere a fuoco il marchio di fabbrica qualsiasi sia il genere musicale proposto; in secondo luogo, bisogna ammettere che Hail to the King è nettamente inferiore ai tre album che lo hanno preceduto, però allo stesso tempo, e meravigliosamente aggiungerei, risulta essere il lavoro che ha consacrato la band tra le rockstar internazionali, in seguito al quale nessuno più si aspetterà da loro innovazioni sostanziali alla scena metal mondiale, ma tutti li accoglieranno con alta probabilità come i nuovi paladini ed eroi dell’heavy metal. Un album buonissimo e dignitosissimo, che, sicuramente, segnerà una carriera ancora lunga e costellata da molti successi, ma City of Evil e Avenged Sevenfold sono lontani.
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autore: Nicola Vitale