Non è un caso che una figura seminale della critica e cultura musicale come Simon Reynolds (oggi lunedi 19 al Circolo degli Artisti – Roma perpresentare il suo ultimo libro) abbia dato alla stampe “Retromania” in cui si discute, come si evince dal titolo, del continuo revival della cultura pop, nonché, a grandi linee, delle mancata evoluzione di qualsiasi manifestazione musical-culturale di quest’ ultimo decennio.
Certo, si può non essere d’accordo con il guru americano, lucidissimo, ma particolarmente estremo in alcune considerazioni (“la neofilia è degenerata in pura necrofilia“), però è innegabile che in moltissime produzioni contemporanee sia forte, fortissimo quell’odore di naftalina che è la prova inconfutabile che si è appena schiuso per l’ennesima volta il baule che molti anni prima avevamo riposto in soffitta.
Conferma delle tesi del buon Reynolds è senza dubbio anche questo secondo lavoro dei newyorkesi The Drums, band che poco più di un anno fa era stata capace di piazzare sul mercato 200.000 copie del loro omonimo esordio e che ora, priva del chitarrista fondatore Adam Kessler, riprova a ricreare attorno a se quell’ hype che aveva caratterizzato il loro successo soprattutto nel mercato europeo.
Il sound del gruppo, nonostante la sostituzione del batterista (passato alla chitarra) con una drum-machine e un uso frequente dei sinth è rimasto in fondo invariato, legato inesorabilmente a quelle sonorità eighties che fanno tanto Cure e Smiths (ma nei loro momenti meno inquieti), ma sostanzialmente ciò che caratterizza la scrittura e forse, l’esistenza stessa di questo gruppo, sono quei pezzi surf-pop come “Book of Revelation” e il singolo “Money”, che si impiantano nel cervello come un tarlo in un mobile di castagno, non spostandosi però di un centimetro da quel rockettino indie leggero e ciondolante di “Let’go surfing”, super singolo dell’estate scorsa che li aveva portati nelle radio e nelle televisioni di mezzo mondo come colona sonora di un spot automobilistico.
Quando invece i newyorkesi si allontanano dai territori a loro cari della “one hit” il rischio e il risultato è quello di affondare nella ripetitività e nella derivazione più totale, lasciando che pezzi come “ I need a doctor ” e “ In the cold” siano fin troppo “ispirati” al sound post-punk di Joy Division e New Order, da risultare quasi delle copie mal riuscite.
“Please don’t leave” e “I don’t know how to love” provano ad essere quanto meno evocative, creando un mood leggermente più dark e più vicino alle intenzioni originarie dei tre, soprattutto sfruttando l’effetto picking delle chitarre, che però anche in questo caso, pagano un dazio elevatissimo alle sonorità di Mr. Robert Smith.
“Portamento” in definitiva, con le sue atmosfere che vorrebbero essere ombrose e malinconiche, risulta invece solo un insieme di composizioni sbarazzine, buone per condire qualche indie-party di fine estate, un guitar-pop questo dei tre di Brooklyn, ben lontano dall’inquietudine dei “padri fondatori” a cui il gruppo vorrebbe tendere, ma che inesorabilmente non riesce nemmeno ad avvicinarsi.
Una postilla finale.
Quando a novembre i The Drums suoneranno a Milano nell’unica data in Italia, oltre a reggiseni e pupazzetti, sarebbe opportuno che sul palco fosse lanciata anche una copia di “Post-punk 1978 – 1984” del sopracitato Reynolds, potrebbe davvero aprire nuovi orizzonti a questi giovani rocker, ma dubito che tra i loro fan ci sia qualcuno che l’abbia letto.
Autore: Alfonso Posillipo
thedrums.com