Il film di Marco Tullio Giordana ostaggio di un fatto storico già commentato in tutte le salse
Dopo le fallimentari esperienze del ‘900 tornare a un cinema di Stato, cioè pensato da istituzioni pubbliche per essere visto da persone di una certa nazionalità, sembra solo un anacronismo, una scelta valida per regimi totalitari o Stati neo-nati bisognosi della propaganda cinematografica a scopo di formazione. Ma con “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana (co-prodotto dalla Rai) il cinema viene concepito in un modo non del tutto dissimile da questi precedenti.
Regista e sceneggiatori sono ostaggi di una vicenda storica già commentata in una miriade di pubblicazioni e rivista negli innumerevoli documentari apparsi nell’infinito rullo che è la televisione. Il film ripete le interpretazioni che l’Italia ha cercato di dare a un fatto clamoroso della sua storia, ma la debolezza con cui cerca di appoggiare una particolare lettura storica ne fa un puro elemento didattico.
Basta perciò una infarinatura sommaria per smascherare gli intenti del film di attribuire il conto storico a quella o quell’altra fazione, per godersi la trama come un contenitore di informazioni precise. Il cinema è così a servizio di una funzione scolastica quasi sostitutiva di una lezione di storia, non solo quindi complemento di essa. Gli attori sono libri aperti, o meglio tutti formano un libro in cui ci sono digressioni dal tema principale (il trasformismo di Gifuni che per lunghi tratti scompare dalla narrazione), piccole note al margine (il ruolo di Francesco Salvi), e “leggerli” vale quante un corso di Storia.
Forse un giorno ci sarà un metodo educativo riconosciuto, una forma buona e meno invasiva di trattamento Ludovico che invece di instillare una repulsione automatica verso le azioni malvagie servirà a riassumere in forma semplificata la ricostruzione storica, condensare ore di studio nella durata media di una pellicola così da aiutare o stuzzicare i più pigri oppure salvaguardare gli studiosi professionisti, schiavi della forma-libro, da perdite di tempo e non appesantire i loro già complicati piani di ricerca.
Combattere così il potenziale tedio della lettura che va accompagnata a una attività critica sempre vigile e presente a se stessa, con l’esatto opposto che è la piacevolezza e la passività dell’essere spettatori, quel mancare a se stessi che è la visione sprofondando in uno stato di incoscienza. In tal caso il grado zero della recitazione e della regia, quella nota capacità di essere incolore della forma televisiva, sarebbe un traguardo ambito e perfetto per questi scopi (rimossa la manipolazione artistica come una sorta di errore). Fiorirebbero professionisti specializzati in pellicole di questo genere, simili alle pillole di Fahrenheit 451, per erudire in 120 minuti.
Autore: Roberto Urbani