I C’Mon Tigre ho avuto la possibilità e la fortuna di ascoltarli dal vivo, ed è stata una bellissima esperienza in termini di qualità, intensità e bravura; un progetto/collettivo che se su disco rende più che ottimamente, in concerto si supera, data anche la peculiarità del “duo” madre di ampliare l’area creativa, coinvolgendo e mettendo in “prima linea” musicisti di “quantità” e qualità.
Dopo l’omonimo esordio del 2014, l’EP “Elephant Remix” del 2017 e quanto di eccellente pubblicato con “Racine” del 2019 e “Scenario” del 2022 (di pregio le versioni in vinile con booklet illustrato di 84 pagine per “Racine” e 64 pagine per ”Scenario”), il “collettivo” ha dato alle stampe “Habitat” (Intersuoni), in cui con i C’Mon Tigre (voci, chitarre, pianoforte, organo, mellotron, basso, rhodes bass, moog, arpeggiatori, percussioni, drum machines, sintetizzatori, samples) figurano come formazione “base”, Beppe Scardino e Mirko Cislino ai fiati, Pasquale Mirra allo xilofono, Marco Frattini e Danny Ray Barragan alla batteria e Valeria Sturba alle secondi voci.
Prima di soffermarci sui singoli brani che compongono “Habitat”, è necessaria una premessa: l’ordine di brani in formato liquido presente su spotify non rispetta l’ordine del vinile (si seguirà quest’ultimo nel presente articolo).
Sin dall’apertura affidata a “Goodbye Reality”, “Habitat” conferma “sostanza” e “spessore”, miscellanea di jazz, fusion, calore umano ed elettronico, su cui una voce filtrata azera il tempo e porta alla decomposizione finale.
“The Botanist” trasogna tra sapori esotici, singhiozzi, cibernetica, assoli e voci (completate dalla partecipazione di Seun Kuti alla voce all’assolo di sassofono contralto), insegnando come dovrebbe essere una data musica abusata oggi da tanti “contemporanei” votati al mainstream.
Miscellanea di “stile” e di eleganza è “Nomad At Home” con i suoi arabeschi del passato e le sue metropoli del futuro.
Chiude il Side A, la perfetta “Keep Watching Me”, jazz latino destrutturato con un’esatta chitarra e la presenza di Arto Lyndsay alla voce a onorare il tutto: prima vetta raggiunta da “Habitat”; ad arricchire il suono, il violoncello di Daniela Savoldi e i violini di Eloisa Manera.
Se il Side A si era congedato in modo eccelso, il Side B si apre con un piccolo gioiello, “Sixty Four Seasons”, brano (a parere di chi scrive) di punta del disco, in cui tornano le tribolazioni urbane da jazz graffiato di rock che si adombra nel inframezzato cambio d’atmosfera, da film noir.
Di pregio anche la successiva “Teen Age Kingdom”, abrasiva, sinuosa, giungla eterogenea da amazzonia brasiliana, impreziosita dalla voce di Xênia França.
Se il classico “Odiame” (affidata nell’esecuzione ai soli C’Mon Tigre – il brano è a firma di Rafael Otero López e Federico Barreto) è da claudicante banda latinoamericana, “Sento Un Morso Dolce”, con Giovanni Truppi alla voce e ai “sound effects” (Truppi è anche unico autore del testo), ricorda il miglior Daniele Silvestri “narrante” e visionario.
Chiude degnamente l’LP, “Na Dança Das Flores”, rave party nella foresta, congedando un disco nel complesso di livello che coerentemente con la grafica e il titolo è selva sonora e ambientale la cui unica pecca e solo una mancanza di totale, perfetta omogeneità.
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