Sono passati esattamente quattordici anni dall’omonimo album d’esordio di questa band che vendette oltre cinque milioni di copie in America e qualche altro milione nel resto del mondo. Bastò un singolo fintotriste, mieloso alla bisogna e un cicinin orecchiabile (“18 and life”) a far breccia nel cuore delle ragazzine che, martellate anche da una campagna promozionale radio-video letteralmente d’assalto, caddero tutto di un pezzo nella trappola tesa da un’astuta major che aveva in progetto un’alternativa credibile a Bon Jovi (siamo nell’89). Cantante belloccio, chioma fluente, nome altisonante (Sebastian Bach) e il disco -un mix di rock, hard e blues che malaccio proprio non era- va via come il pane. Seguono grande tour e parecchi sold out a celebrare un successo tanto repentino quanto inatteso. Con il secondo “Slave To The Grind” (1992) cominciano a cambiare le cose. Innanzitutto il suono: le chitarre acustiche lasciano il passo a chitarre decisamente rumorose, le melodie accattivanti neanche mancano -come nel primo lavoro- solo che devi andartele a cercare. Troppo faticoso. Qualche adolescente molla l’osso. L’album arriva comunque ai vertici delle classifiche -strizzando l’occhio all’heavy metal- ma primo su Billboard ci resta poco e le tensioni nel gruppo si moltiplicano. Bach e il duo Bolan-Sabo, rispettivamente basso e chitarra, non riescono a trovare la giusta sintonia e molto riluttanti, forse costretti, entrano in studio a registrare il terzo e ultimo capitolo della loro avventura musicale “Subhuman Race” (1995) sostanzialmente ingiudicabile. E nemmeno questo comeback a otto anni di distanza fa gridare al miracolo, lo dico subito. “Thickskin” unisce buone cose a suggestioni veramente lontane dalla storia e dalle corde dei vecchi compagni di sbandate. Bach è sparito. Snake Sabo, Rachel Bolan e Scotti Hill -l’altra chitarra- hanno chiamato l’amico Phil Varone a percuotere le pelli e ingaggiato alla voce Johnny Solinger un texano che se la cava dietro al microfono: ha una timbrica southern che accende l’interpretazione, e del suo predecessore è migliore soprattutto sul piano ritmico. Tutto okay se non fosse che alcuni pezzi sembrano usciti da benaltri dischi. “New Generation” ricorda “Beautiful People” del reverendo Manson e un’opener altresì spiazzante non la potevano scegliere. Un invito a farsi chiamare in giudizio da Glenn Hughes -invece- il riff iniziale della terza “Swallow me”. La poisoneggiante “Ghost” e la ruvida titletrack riavvicinano i nostri, rispettivamente, alla loro prima e seconda produzione. Il resto dell’album rientra -infatti- nella logica delle cose. “See you around” e “One light” sono mezze ballate tipicamente Skid Row.
Quarantatre minuti senza particolari sussulti e poi arriva la chiusura con l’energica “Hittin’ a wall”. Trascinante, ma nulla che si avvicini alla cara e vecchia “Rattlesnake Shake”.
Autore: Antonio Mercurio