Non è ancora finita l’estate, ma sembra che le ultime parole, almeno per il 2013, siano già state scritte. Giravano voci riguardanti una estate “carica di meraviglie” per la Campania, di una stagione di festival da far invidia a chiunque. Eppure, anche se siamo solo poco oltre la metà di agosto, per la musica dal vivo (scusate l’inflazionata citazione) è il mese più freddo dell’anno. Non che non vi siano serate e concerti, giammai: beccare la band di turno in day-off è un’opportunità che fa gola davvero a tutti e se da Roma a Brindisi qualcuno passa qui intorno, diventa obbligo morale inserirlo nel cast. Un fenomeno che ha assottigliato la cerchia dei concerti ed ingrossato enormemente quella dei festival. Manca allora un anello, una congiunzione, una pennellata che renda il quadro decodificabile. Manca la consapevolezza di cosa sia un festival.
L’esibizione di una band nazionale, aperta da una schiera di gruppi emergenti, non è un festival. Tre giorni con tre headliners (seppur di tutto rispetto) ed un dj-set a fine serata, non è un festival. Non è un festival neanche un palco senza un banner con il nome dell’evento, sul quale far suonare due nomi internazionali, ed il Neapolis 2013 ce ne ha dato atto. Un festival non si tira su chiamando un service e qualcuno che sappia suonare una chitarra, o inserendo semplicemente la parola “Fest” dopo il nome della manifestazione. Un Festival musicale è qualcosa di più grande, di una complicata semplicità: è un’alchimia precisa, conseguenza perfetta di tante parti in relazione tra loro. Il palco, la città che lo ospita, il pubblico, gli artisti, i promoters, gli addetti ai lavori, i giornalisti e, non ultima, l’aria che si respira. Impensabile concepire due giorni dello stesso evento come due concetti separati. Impossibile anche pensare al contenitore (la città) slegato dal contenuto. Come si può immaginare di raggiungere un livello accettabile se chi partecipa il primo giorno, non sa dove dormire o che fare durante le ore di stop? La soluzione più rapida è la fantomatica “Area Camping Attrezzata” (un aiuola in pendenza, un paio di bagni chimici, una brace), messa in evidenza su quei due manifesti incollati di notte sotto le pensiline dei bus o sul web-flyer da inserire come foto profilo su Facebook (ed ecco risolta anche la spesa dell’ufficio stampa, “tanto c’è l’evento su Facebook”). Ciò che si prova è un’aria di mediocrità che fa ridere, neanche troppo sotto i baffi.
Si potrebbe obiettare affermando che, in fin dei conti, siano i numeri a parlare. Se la gente ci va, c’è un motivo. Ed è vero: ma se il motivo è opinabile, il gioco non vale comunque. Riempire un paese di persone non interessate a ciò che succede sul palco e considerarlo un festival riuscito, è come paragonare lo Sziget alla fiera del porcino. Senza nulla da togliere al beneamato fungo, sono due campi da gioco diversi.
E quindi che si fa, si smette di suonare? Ovviamente no. Ma finché non ci si rende conto della situazione reale, finché si ha paura di osare e di assicurare due o tre headliners possenti, finché non si integra la proposta artistica con quella turistica (convenzioni con hotels e b&b, navette, campeggi), finché si continueranno a intendere le giornate come diverse serate unite solo dal nome, fino a quando ci sarà solo un pagante che si chiederà “Ed ora che faccio, fino a quando non iniziano a suonare?”, allora, semplicemente, non usiamo quella parola. Non per rispetto nei confronti del vocabolario, ma perché si continua ad abbassare il livello, si educa negativamente la platea.
E no, non basta l’Ariano Folk Fest e non basta Voci dal Sud. Non basta neanche la tre giorni organizzata dalla vostra associazione culturale. Se non siete d’accordo, cercate Coachella o Pukkelpop su Google, poi di corsa nell’angolino.
autore: A. Alfredo ‘Alph’ Capuano