Tempo d’Estate, tempo di musica etnica, a Napoli. Nell’ambito della rassegna ‘Germogli’ sull’alimentazione biologica o qualcosa del genere, sbarca in città Femi Kuti, ed appena sale sul palco accompagnato dal suo clan di 15 musicisti circa – tra cui 3 scatenate danzatrici, almeno un paio delle quali dovrebbero essere sue sorelle – comincia a scaraventare sul pubblico presente generose tonnellate di afrobeat aggressivo, ossessivo, sorprendente per chi come il sottoscritto s’aspettava un’esibizione di musica popolare africana molto più tradizionale.
La verità è che Femi tutto è tranne che un musicista tradizionale: la sua musica mescola i suoni ed i ritmi della terra d’origine, la Nigeria, con suoni e ritmi della black music anni 70 dei “fratelli” nordamericani: ne esce fuori il così detto afrobeat, appunto, in cui il muoversi coi corpi, sul palco, è parte integrante dello show.
Così assistiamo ad un concerto ammaliante perchè poco ortodosso rispetto ai nostri ordinati standard musicali occidentali, e osservando la buona risposta della gente mi convinco che forse Napoli è una città più di altre in grado di capire la musica di Femi. Perchè qui la musica africana davvero piace e tutti coinvolge, molti si scatenano sotto il palco in una danza frenetica e sconclusionata, mentre si liberano istinti che la civiltà metropolitana soffoca.
Il concerto, che vale come presentazione dell’ultimo disco “Africa Shrine“, anche se trascinante si rivela a dire il vero anche confusionario, con qualche tempo morto che probabilmente serve a Femi per rifiatare un attimo prima di ripartire col pezzo successivo, ed un marasma di bellissime percussioni afro artigianali, batteria moderna, ottoni e fiati, chitarre elettriche cui ogni tanto si sovrappone l’impietosa e debordante tastiera Krog di Femi, che macina un suono assordante e strano per le nostre povere orecchie europee, da troppo tempo costrette nell’angusto limite della melodia e non più abituate alla vera festa.
Necessarie due parole sulla somiglianza davvero impressionante – anche fisica, ma soprattutto artistica – tra Femi e suo padre: Femi è figlio di Fela Kuti, il Black President – il più straordinario musicista che l’Africa abbia mai avuto, morto nel 1997 dopo una vita assolutamente incredibile fatta di musica, lotta per i diritti umani, poligamia (27 mogli!), attivismo politico, satira contro i dittatori, violente ritorsioni subite dai militari, 2 anni di carcere, tournèe trionfali negli Usa, Aids, un funerale cui partecipò tutta la Nigeria e tant’altro ancora – e se la storia della musica racconta che negli ultimi anni Femi si esibiva sul palco assieme al padre, fa un certo effetto stasera, in chiusura del concerto e per pochi scampoli, vedere Femi accompagnarsi al sax col figlioletto di circa 9 anni: quasi la promessa di un nuovo futuro passaggio di testimone nella dinastia dei Kuti…
Dicevo, 15 musicisti sul palco: mi faccio due conti mentre l’esibizione volge al termine, e mi rendo conto che ognuno di loro guadagnerà stasera una miseria, dovendo dividere l’ingaggio con così tanti colleghi! Ecco, del resto, il motivo per cui le grandi orchestre jazz degli anni 40 furono un’esperienza irripetibile: i musicisti, senza ingaggio, rischiano di fare davvero la fame…
Autore: Fausto Turi