Il grande mistero che giace al fondo della celebrità di Quentin Tarantino è questo: come può un cinema fatto di citazione e rimandi, un cinema che si nutre di sé stesso, un cinema del già visto, contenere tanta originalità? Il suo nuovo “Death Proof” non scioglie questo nodo. Le sequenze e i movimenti di macchina sono predisposti come fossero il linguaggio puerile di un povero collezionista di Vhs, ma, nello stesso tempo, costituiscono il nervo grandioso di un talento visivo tra i più folgoranti degli ultimi anni. Quel che viene mostrato supera la qualifica di immagine, è l’eccesso della caratterizzazione che, reso visibile, rompe gli argini della cornice dello schermo. Il talento di Tarantino può risultare affabulatore anche se possedere la medesima potenza di un’aggressione dissennata rappresenta la posizione più lontana dall’affabulazione; le citazioni non sono strascichi di una cultura cinematografica, ma ricordi di uno spettatore violentato dal video.
Così come quando ci si trova davanti a qualcosa di bello e valido, è sempre meglio chiarire: nonostante la cultura pop afferri molte delle creazioni attraenti sul mercato per macinarle a proprio piacimento, Tarantino riesce ad esulare dalle sabbie del tempo grazie ad uno scarto che si produce esclusivamente nel buio della sala. Si crea così un divario tra il resto del cinema e quello suo. La facilità con cui le sue colonne sonore diventano immediatamente nucleo di un immaginario pare una naturale assimilazione delle mode, invece è il sintomo di una classicità istantanea che suscita scalpore allo stesso modo dei reperti video di un attentato terroristico: come per questi ultimi, la propagazione è perciò quasi necessaria.
Il cinema-evento di Tarantino è tale solo perché non potrebbe essere altrimenti, ma non mira ad esserlo incondizionatamente. Inoltre i collegamenti filmici (non solo B-movies) imparentano Tarantino allo spettro eccellente di Claude Lelouch che concepisce il cinema pervaso di musica intrecciando sempre script e spartiti.
La musica rappresenta più che mai nella filmografia tarantiniana un perno drammatico su cui si aziona il balocco che è il film stesso. La canzonetta ricopre il ruolo insostituibile di un finto contrappunto, in realtà detta sempre più il ritmo, regola letteralmente i tempi della regia alla stessa maniera in cui il regista pare più orchestrare la musica invece che ordinare la trama.
Da sceneggiatore poi Tarantino rescinde i ponti con le note, preferisce giocare fondendo piani sequenza sfrenatamente europei con dialoghi che si possono solo definire tarantiniani.
Quando i minuti di conversazione si accumulano fluendo naturali vuol dire che l’ingegno opera secondo regole tutte personali e, inoltre, riesce ad importare gli stilemi di altri generi personalizzandoli. Ciò che risulta più evidente è la spontaneità con cui tutto avviene: è difatti scongiurata la minaccia che il regista rimanga l’unico referente di sé stesso.
Il bar dove il jukebox grida e s’impossessa degli astanti è la riduzione di tutto il globo ad un ambiente chiuso ( come “From Dusk Till Dawn” la cui sceneggiatura portava la sua firma), tra i balli e i superalcolici si consuma un mondo interno contrapposto poi all’esplosione di esterni della seconda frazione del film. Interno-Esterno. Con Tarantino si torna sempre alla grammatica del cinema.
Autore: Roberto Urbani