L’hip hop della Bay Area (escludiamo, a scanso di equivoci, le prodezze avanguardistiche di casa anticon. da tale novero) va assumendo i connotati dell’amaro Montenegro. Altrimenti detto: lo riconosci subito. Detta così sa di trattamento sbrigativo, me ne rendo conto, ma tenete presente che, benchè non affetto da pregiudizi riguardo a tale materia (ed anzi, nelle sue migliori espressioni, appassionato estimatore) e a tutti i progenitori dal cui afro-americano calderone essa è stata partorita, in un certo senso sono uno che “ci prova” a tracciare un profilo dell’hip hop che gli capita per le mani. L’estetica hip hop non è mai stata in vetta alle mie preferenze (a meno di non trattarla senza prendersi troppo sul serio – Beastie Boys docent), ed è già questo un prendere delle distanze da un fenomeno che, vale ripeterlo, molto difficilmente può fare a meno del carico estetico, proprio e indotto, per affermarsi.
Cos’ha allora questo west coast hip hop di riconoscibile? Semplicemente è più leggero, non necessariamente nel senso di tentare il colpo su un pubblico quanto più vasto possibile, né in quello di “semplificare” il composto alla base della chimica rap, ma nel senso di guardare alla musicalità del rhyming – quindi alla scorrevolezza del flow – più che all’incisività e all’impatto del rapping. Più dancehall e meno hardcore di quello east coast, insomma, lasciando da parte – ed è un pregio – le leziosità mainstream cui talvolta anche i più combattivi rappers cedono, in ossequio a chissà quale misteriosa etica: qui la morbidezza del combinato musica-parole è una regola, difficilmente “smelassa”, evitando quindi scarti sostanziali rispetto a un core-sound evidentemente più “duro”.
Fine della lezione. Che non è quella che dò io a voi ma quella che gli ascolti danno a me. Nessuno escluso, tanto meno questo debut album di uno degli esponenti di spicco tanto dei Souls Of Mischief quanto della stessa Hieroglyphics. Che pecca per due motivi, principalmente: un’eccessiva lunghezza (su vinile avremmo due dischi da “spicciare”) cui non corrisponde (magagna n. 2) una adeguata varietà di mood e suoni. Oltretutto – precisazione dianzi omessa – dancehall in tale contesto non vuol dire beats e breaks di feroce (contro)ritmicità, ma più spesso un moderato crear figure di corpo in movimento. L’opening track (‘Viva Main Vein’, bella ganza) è una dolce illusione, un fuorviante antefatto a quanto di poco eterogeneo e movimentato seguirà. Se mollate prima di cominciare, ve la perdete insieme alla chitarrina funky e il ritmo trascinante di ‘The Grassy Knoll’ (penultima traccia, lunga attesa). Ma “abbiamo ragione di ritenere” (sentita la voce registrata del 187?) che un simile sacrificio ve lo potete permettere…
Autore: Bob Villani