Li avevamo visti, goduti e apprezzati in Italia, nell’estate del 2017, a Villa Torlonia in piena Romagna, all’epoca del tour del loro secondo, splendido album Not to Disappear, al punto da parafrasare una celebre frase della letteratura rock e permetterci di dire “ho visto il futuro del post-rock, e il loro nome è Daughter”. A distanza di quasi sette anni da allora, tanti quanti ce ne hanno messi i tre ragazzi di Londra, la vocalist e leader Elena Tonra, il chitarrista/bassista Igor Haefeli, il batterista Remi Aguilella, per regalare ai fan un nuovo disco, possiamo confermare la frase e l’entusiasmo, perché il terzo disco, Stereo Mind Game, è una conferma. Il suo unico difetto è proprio che nasce troppo tardi, ben sette anni dopo quel periodo magico in cui la band, all’attivo con soli due dischi, aveva incantato mezza Europa con Youth, quasi un inno generazionale, e aveva vinto per il disco d’esordio il premio “Album indipendente dell’anno” agli AIM Independent Music Awards, a cui erano seguiti col secondo disco singoli di successo come No Care, Doing the Right Thing e How. Da allora, però, ne è passata acqua sotto i ponti, post-rock e dream pop hanno trovato altri alfieri, prima fra tutti un’altra band al femminile, i Wolf Alice, che dal grezzo punk-rock degli esordi si è appunto convertita al dream pop (o rock etereo) con lo splendido ultimo disco Blue Weekend.
Vuoi vedere allora che la Tonra abbia finalmente deciso di riprendersi la scena dream pop, dopo la pausa di sette anni nella quale si contano solo un album strumentale, Music From the Storm, pensato per essere colonna sonora del videogioco Life is Strange: Before the Storm, e un progetto solista, Ex:Re? Chissà, ma una traccia è proprio in Ex:Re (in cui peraltro è evidente a cosa si riferiscono le due sillabe, Ex e soprattutto Re come “restart”): il disco, un concept album intorno al tema della fine di una relazione, è stato definito da Elena come “la versione cinematografica di un periodo della sua vita”. Chiari i riferimenti autobiografici, per cui possiamo legittimamente pensare che questi sette anni non sono stati facili per Elena, vocalist, chitarrista e autrice dei brani, che ha dovuto a quanto pare anche staccarsi dalla band per digerire prima e sublimare artisticamente un momento difficile della sua vita.
Ora, Stereo Mind Game, segna un nuovo capitolo per i Daughter. Come band e augurabilmente anche per Elena come persona. Il loro terzo album, uscito il 7 aprile su 4AD, presenta la versione più ottimista e matura finora ascoltata nei testi della band.
Lo si percepisce subito in Be On Your Way, il primo singolo, e anche prima canzone del disco se si eccettua il brano di Intro, accompagnato da un video di Tiff Pritchett. Il brano è una canzone struggente, in cui la figura romantica a cui Tonra si rivolge nella canzone è una persona incontrata in California durante la stesura del disco. Hanno condiviso un legame significativo, pur sapendo che l’Atlantico li separava. Il video evoca una serie di ricordi, sovrapponendo immagini di Tonra a immagini di bei momenti di passaggio come il volo di un uccello, un campo fiorito. Be On Your Way non è stavolta un brano sulla fine di un rapporto, destinato peraltro a non durare, ma, come evoca anche il titolo, sulla accettazione del tempo che passa e la consapevolezza che nel tempo che scorre l’unico centro per ognuno di noi siamo noi stessi.
Il tempo intanto è passato anche per gli altri due membri della band: Aguilella si è trasferito a Portland (Oregon), Haefeli a Bristol (Inghilterra). Tuttavia, nonostante la distanza fisica ulteriormente aggravata dalla pandemia, i Daughter hanno continuato a incontrarsi e a comporre insieme. Stereo Mind Game è stato di genesi lunga anche per queste ragioni, e forse anche perché è stato scritto e registrato in varie località tra cui Devon, Bristol e Londra in Inghilterra, San Diego in California e Vancouver, nello stato di Washington.
Musicalmente, il disco non presenta, va detto, grandi novità stilistiche rispetto ai due precedenti: fra queste si annovera il fatto che per la prima volta Tonra non è l’unica voce del disco, e in Future Lover e Swim Back compare quella di Haefeli e in Neptune, Wish I Could Cross The Sea compaiono anche cori. Altra novità è che l’orchestra d’archi londinese 12 Ensemble (con cui Elena ha rivisitato il suo disco solista Ex: Re producendo appunto una versione orchestrale) è presente in tutto l’album, a cura di Josephine Stephenson, ed ecco infatti un quartetto di ottoni entrare in Neptune e To Rage.
Tuttavia, a parte queste interessanti varianti, la marca stilistica dei Daughter, quella che li ha “segnati” per il successo, rimane inalterata: lo si capisce già nella seconda track e secondo singolo, Party, dove un giro di basso e batteria introduce il classico arpeggio di chitarra alla Daughter, su cui poi si scalda la voce onirica, eterea, evanescente, mistica, di Elena, che è il vero valore in più della band, capace infatti di trasformare ogni trama musicale in qualcosa che sembra sempre provenire da un’altra dimensione, quasi come una sirena che cantando magnetizza e ti costringe ad ascoltare, ad andare avanti, in piena estasi. Dandelion è nella stessa scia di Party, ma si sceglie la chitarra acustica per l’arpeggio che conduce la struttura del brano. Entrambi sono brani molto collegati a vecchi pezzi della band, come No Care. Neptune è invece un monologo lirico in chiave celtica, la cui prima parte è stilisticamente molto più vicina a una ballata medievale che non a una canzone rock. E perciò la voce di Tonra, di origini irlandesi ed educata dal nonno appunto alla musica celtica, risplende qui, più che mai, arrivando a tonalità e sfumature mai avvertite. Entrano poi i cori, la trama musicale onirica marchio di fabbrica dei Daughter, e l’orchestra. Un pezzo antico e nuovo allo stesso tempo, uno dei momenti più alti e emozionanti del disco.
Segue Swim Back, il terzo singolo, dove invece è l’intro a essere potente sin da subito: su un orgia di strumenti organistici entra la batteria rock più classica che ci sia, e il pezzo è già incantevole: Tonra è più eterea che mai grazie agli effetti di voce, ed è qui che hai la definitiva conferma già a metà album che i Daughter sono ancora loro, sempre loro, forse i più rigorosi e assoluti interpreti di questo genere indefinibile che ha dato nuovi colori e nuova forza al rock di fine millennio. E’ fin qui il pezzo più solare, energico, caldo del disco, il cui testo evoca ancora l’entusiasmo per il rapporto avuto oltre oceano, da cui evidentemente Tonra ha trovato ispirazione anche per comporre di nuovo ai suoi soliti livelli, con un tocco di solarità in più.
Junkmail inizia come momento più intimo, quasi di respirazione, dopo tanta energia emotiva e musicale spesa nelle prime 6 tracce, tanto che la canzone è tutta voce sussurrata, più parlata che cantata, e chitarra arpeggiata, con una batteria jazzata che più lieve non si può, che però a metà pezzo porta il brano in un sorprendente crescendo, da ascoltare fino al sorprendente finale.
Un’altra piccola novità stilistica è Future Lover, per l’intro di chitarra elettrica stile Numb degli U2, che promette un’esplosione del pezzo che a dire la verità poi non avviene. Il pezzo rimane mono-tono e mono-ritmo, ed è forse l’episodio meno riuscito del disco, ma in cui la band riesce comunque a metterci dolcezza, melodia, al punto da rimanere più che gradevole.
Altro episodio intimo di arpeggio di chitarra e voce (a cui la band ci aveva abituato anche negli altri dischi) è Isolation, mentre il congedo del disco è affidata a To Rage e Wish I Could Cross The Sea.
To Rage è una struggente ballata dove la chitarra e non la voce, stranamente, fa da padrona, e in cui, a dispetto del titolo, Elena si rivolge non con rabbia ma con calma a qualcuno (il suo ex di Ex:Re) puntando il dito per il suo abbandono nel momento peggiore, e sia l’assolo di chitarra sia l’acuto vocale seguono questa scia melodica e nostalgica senza lasciarsi andare alla rabbia, rendendo alla fine il pezzo dolcissimo e malinconico (si conclude con una domanda “Where are You Gone?” che ogni innamorato/a deluso/a si è fatto/a almeno una volta nella vita), ma tuttavia privo della volontà di lasciarsi andare al lato oscuro. Wish I Could Cross The Sea, come l’intermezzo di Missed Calls, comincia con voci indefinite di bambini, amici e familiari, ed è la classica canzone da congedo dei Daughter, in tono minore, dimesso, come Shallows per If You Leave e Fossa per Not to Disappear.
L’ascolto del disco lascia al fan la sensazione che i sette anni non siano affatto passati per i Daughter: questo è sia il pregio che il difetto del disco. Se ci si attendeva, legittimamente, novità esplosive, dirompenti, svolte artistiche, si può ben dire che queste non sono avvenute, e si può aggiungere che pur nella sua bellezza il marchio stilistico dei Daughter avrà bisogno negli anni a venire anche di variazioni e nuova sperimentazione per non risultare monotono. D’altra parte, il fatto che canzoni del disco scritto sette anni dopo il loro primo capolavoro possano essere indistinguibili da quelle è anche un segno che la maturità e creatività artistica non sono calate. I Daughter sono vivi e vegeti e a questo punto non resta che aspettarli dal vivo, per vivere la magia della chitarra di Igor, vero unico erede dello stile dei Mogwai di Stuart Braithwaite, e della inconfondibile e unica voce di Tonra, da vicino.
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autore: Francesco Postiglione