Uno di quei cantautori che in Italia si contano sulle dita di una mano, la sua idea di modernità, la sua musica semplice e anacronistica, l’autarchia della musica napoletana, l’amore per l’ironia, il nonsense e tanti, tantissimi contrasti che lo attanagliano. E’ Dario Brunori, in arte Brunori Sas, che porta a spasso il suo terzo album “Il Cammino di Santiago in Taxi” e arriva a fare tappa a Napoli, la mia città. Ascolto la sua musica da un paio d’anni, non ho ancora ascoltato con attenzione il suo nuovo album, mi sembra l’occasione giusta per intervistarlo. Un uomo, una dicotomia: a partire dal press-kit di presentazione dell’album Brunori suscita sensazioni contrastanti. Mi invia un documento dettagliatissimo, in cui apre le porte della sua visione del mondo agli altri, in cui racconta ogni momento legato alla nascita dell’album, ogni sensazione legata ad ogni canzone de “Il Cammino di Santiago in Taxi”, le sue idee sulla digitalizzazione e persino libri letti e dischi ascoltati durante la produzione del lavoro. Un giornalista pensa, a primo acchito, che pare essere una buonissima idea, che aiuta chi si tuffa nel micro cosmo di un artista e del suo lavoro artistico. Il problema nasce nel momento della redazione delle domande: “Macchè, mi ha già detto tutto?”.
Brunori, il press-kit dell’album è un libretto per le istruzioni. L’ho seguito perfettamente, alla lettera. Adesso quasi non so cosa chiederti, mi hai già convinto.
Mi sono dilungato troppo? (ride ndr.) Mi hanno chiesto di preparare due righe di presentazione all’album, un po’ di sensazioni legate alla produzione e alla registrazione. Forse ho esagerato, ho pensato di condividere con voi anche letture e dischi. Quando si parla di sentimenti divento logorroico.
A parte tutto, una buonissima idea, presenta al meglio “Il Cammino di Santiago in Taxi”, un pellegrinaggio senza fatica. Curioso contrasto, com’è nato il titolo dell’album?
La prossima volta scriverò direttamente le recensioni. “Il Cammino di Santiago in Taxi” è prima di tutto una storia vera. La storia di una signora “bene” che decide di coniugare ricerca spirituale e massimo comfort, ma non si parla di lei né del pellegrinaggio a Santiago di Compostela in questo album. Il tema dell’album è più di tutto la tensione tra profondità e superficie: da un lato il convincimento romantico/ottocentesco che il tesoro della vita sia nascosto in profondità e che perciò necessiti di fatica, dall’altro l’impertinente attitudine della nostra epoca di fuggire dai valori per frazionare l’esistenza in una miriade di piccoli e veloci gesti spettacolari. Il bisogno di profondità e il desiderio di arrivarci il più presto possibile per passare a fare altro. Come intraprendere il Cammino di Santiago in taxi, appunto.
Un po’ la prerogativa di chi è cresciuto negli anni ’80 e si trova catapultato nel nuovo mondo digitale. Hai parlato di “indie”, il fantomatico termine a cui sembra girare attorno tutta la musica alternativa italiana. Per te, che sei spesso accostato a questo termine, cosa significa essere indie?
Per un musicista essere indie significa essere fiero dell’indipendenza da etichette e major. Io ho fondato un’etichetta tutta mia (Picicca Dischi ndr.) in cui portiamo avanti realtà piccole, simili alla mia quando iniziai la carriera da solista. Poi vabbè, dal punto di vista discografico la differenza è ormai molto sottile, le major diventano sempre più trasversali e chiedono collaborazioni anche alle piccole etichette: noi sfruttiamo la loro struttura distributiva, loro sfruttano la nostra attenzione ai particolari e alle realtà artistiche di nicchia sul territorio. Tornando all’essere indie, ormai è una parola che va di moda, abbraccia ogni genere di cosa, mi piace pensare che sia una controcultura che si sta sviluppando. Mi piace molto anche il movimento musicale indie italiano, l’ultimo album di Vasco Brondi è degno di nota, molto interessante.
E’ uno “state of mind” che circola molto sul web, lo dimostra il grande successo che avete voi artisti “indie” sui social. Che rapporto hai con questi strumenti infernali di condivisione?
Provo ad usarli con equilibrio. Vedo sui social un esagerato desiderio di attenzione, tutti a pensare “se non sono qualcuno non sono nessuno”, tante persone spaesate che perdono sé stessi nei meandri di internet. Io credo che siano strumenti da prendere alle leggera, un po’ come un gioco. Sono arrivato a questa conclusione dopo aver chiuso per un periodo il mio profilo Facebook, sono tornato subito sui miei passi pensando di esser stato stupido.
Anche perché possono diventare delle rampe di lancio per le band alternative.
Esattamente, non siamo appoggiati dalle televisioni, non abbiamo grandi radio che ci trasmettono, da qualche parte dovranno pur arrivare tutte queste persone che ci seguono e ci apprezzano. Sempre pronti, però, ad accusarti di esser diventato “mainstream”.
Considerata la generazione che ti ascolta, quest’album sembra un tentativo di far riflettere le nuove generazioni riportandole sui binari del “sentire”. E’ anche un messaggio per i giovani e per riportare il loro sguardo in profondità?
La tua interpretazione mi piace, ma nella mia mente non è un disco di grandi risposte. E’ più una ricerca cerebrale, una serie di domande che mi sono fatto pensando proprio alla rivoluzione dell’amore digitale. Provo ad essere progressista a riguardo, magari è il concetto d’amore della mia generazione ad essere anacronistico, magari i sentimenti stanno cambiando e le nuove generazioni stanno sviluppando nuovi modi di “sentire”. Sono fiducioso insomma, anche perché il movimento indie italiano, basato molto sul significato dei testi, sta riscuotendo un grande successo, soprattutto nei giovanotti del web. Io resto a cavallo tra il vecchio e il nuovo, contraddittorio anche in questo: quando a guardare le cose è il vecchio che mi porto dentro, l’umanità mi pare morbosamente estroversa, a livelli di solitudine e inconsapevolezza che mi fanno sentire lontano anni luce. Poi, però, subito dopo aver pensato una cosa del genere mi siedo tranquillamente a tavola, prendo l’IPhone e faccio una bella foto al mio piatto di spaghetti, la rendo vintage con Instagram e attendo con ansia il riscontro del web, commenti e piogge di “Like”. Alla fine gli spaghetti finisco per mangiarli freddi.
Dopo la teoria, passiamo un po’ alla pratica: com’è andato il periodo di scrittura e registrazione de “Il Cammino di Santiago in Taxi”?
La scrittura è venuta a seguito di un periodo in cui ho avvertito la necessità di fermarmi, di guardarmi un po’ dentro, di vivere la solitudine, la campagna e la famiglia. Avevo voglia di silenzio e mi sono buttato a capofitto in una ricerca spirituale “fai da te” in cui ho mescolato meditazione e letture filosofiche: Pascal, Gurdjieff, Osho, la pratiche yoga di Satyananda, le danze Sufi. Poi, come sempre per caso, sono arrivate le canzoni. Dal punto di vista sonoro ho avuto le idee chiare sin dall’inizio, roba analogica, roba vecchia che suona senza troppe rielaborazioni, più musica meno forma e accompagnamento. Suoni nuove con attitudini vere, fondamentale è stato Takedo (Takedo Gohara ndr.) che con la sua esperienza in registrazione ha dato forma e suono a tutte le nostre idee. Attitudine electro e grezza stile Beck, pazzia zappiana, un po’ di funk alla Prince e ballatoni made by Elton John.
Il tutto assemblato in un ex Convento dei Cappuccini.
Si, grazie a degli amici sono riuscito ad avere la disponibilità di questo Convento, un luogo meravigliosamente suggestivo. E’ stata una bellissima esperienza: abbiamo mangiato, bevuto, fumato e dormito tutti insieme. Quando ci prendeva bene registravamo, niente stress, niente orari prestabiliti. Tutto questo ha avuto il suo peso sul risultato finale e sull’atmosfera che si respira nel disco.
Arrivi nella nostra Napoli, sei calabrese e credo tu abbia tanti punti in comune con la cultura e l’atmosfera napoletana.
Capirai, calabresi e napoletani hanno tante cose in comune, spesso anche il territorio stesso. Ho un rapporto duplice con la vostra città: da un lato ne sono enormemente affascinato, ha una bellezza intrinseca potenzialmente infinita. Dall’altro mi spaventa l’atmosfera e gli estremi che si trovano curiosando nella vita dei napoletani, mi rendo conto che probabilmente bisogna viverli per comprenderli a pieno. Con i napoletani ho ricordi di grandi amicizie e nemicizie, d’altronde le coste della Calabria d’estate diventano territorio di conquiste napoletane, la mia adolescenza è stata piena zeppa di rivali in amore che venivano dalla Campania. Storie di competizione.
E il panorama musicale napoletano?
Apprezzo tantissimo il panorama alternativo napoletano, è eterogeneo, ricco di contaminazioni o ed in continua evoluzione. Napoli è una citta che difende con i denti il proprio territorio musicale, il panorama è autarchico, molto chiuso nei confini regionali. Purtroppo abbiamo una sola data qui da voi, spero di entrare nel cuore dei napoletani. So che non sarà facile, ma ci proverò visto che abbiamo tanti punti di contatto.
Un panorama chiuso nei confini campani anche per alcune scelte politiche molto discutibili.
Mi rendo conto della situazione, immagino il disagio di non avere a disposizione gli spazi più belli della città per fare musica live. Non giudico e non parlo molto spesso di politica pubblicamente. Ci ho provato nel mio secondo album (Poveri Cristi ndr.), ma credo che servirebbe maggiore attenzione e responsabilità quando si trattano certi temi. Noi artisti siamo dei comunicatori, se affrontiamo discorsi del genere dobbiamo essere pronti a prenderci le nostre responsabilità. Mi rendo conto che nemmeno gli stessi politici lo fanno, ma io la penso così.
Sei già molto apprezzato qui da noi, ma se dovessi promuovere in poche parole il tuo album e la tua musica, cosa diresti?
Direi che sono ricco di contraddizioni anche io (ride ndr.). “Il Cammino di Santiago in Taxi” è un tentativo sentimentale e poetico, e per questo imperfetto e con qualche ingenua sbavatura, di riportare lo sguardo in profondità, dribblando le distrazioni e le tentazioni del mio tempo.
Dario ha le idee chiare sul precariato culturale della nostra generazione, pone le speranze sui “nuovi giovani” e sulla controcultura indie, ma continua a sentirsi nel limbo tra i suoi anni 80’-90’ e la frenesia della modernità. L’ironia affilata di Brunori Sas la si coglie soprattutto durante i suoi live: a prescindere dalla sublime poetica e dalla straordinaria carica che assumono i suoi pezzi dal vivo, quello che colpisce è il personaggio. Battute e nonsense che prendono in giro le nuove smanie da smartphone e le emozioni surreali da mondo digitale, senza dimenticare un po’ di autoironia. Napoli risponde alla grande, riconoscendosi nella grande naturalezza di un uomo del sud e nei testi anacronistici non lontani dalla realtà malinconica e cronicamente legata al passato della nostra città.
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autore/foto: Natale De Gregorio