Era il ritorno più atteso della primavera (insieme con quello a sorpresa di David Bowie): i cavalieri del synth-pop che ha attraversato gloriosamente tre decenni sono tornati con Delta Machine, uscito il 26 marzo, con il solito risalto e la solita eco che si dedica ai grandi. Basti pensare alla versione deluxe con quattro bonus tracks e un libro di 28 pagine con le foto del solito Anton Corbijn, o al mega-tour connesso che partirà il 7 maggio da Tel Aviv per concludersi il 29 luglio a Minsk con le due date italiane il 18 luglio a Milano allo Stadio San Siro e il 20 luglio a Roma, allo Stadio Olimpico.
Prodotto da Ben Hillier e mixato da Flood, Delta Machine è un ritorno benvenuto, dopo quasi quattro anni dal deludente Sounds of the Universe. Nelle parole di Martin Gore l’album è stato annunciato come denso di sonorità quasi blues, vicine a dischi come Violator e Songs of Faith and Devotion. Ma al primo ascolto subito il fan esperto capisce che non è il caso di accostare Delta Machine a capolavori tuttora intoccabili e irragiungibili.
Nel nuovo album troviamo senz’altro canzoni con personalità, a differenza del precedente, ma ahimé non sempre con molto mordente. Molti sono pezzi lenti, lavorati attraverso i sinth e resi interessanti soprattutto dalla splendida, tuttora magnetica voce di Dave Gahan (che non regala agli anni una sola sbavatura), però pur sempre lenti e statici, e senza il ritmo travolgente alla Enjoy the Silence, Walking in My Shoes o Never Let me Down Again, tanto per citare dei classici.
Ricordano, per questo tipo di struttura, i pezzi di Exciter, senza però la travolgente bellezza di Dream On, o Shine, o il colpo di genio romantico di When the Body Speaks o di Free Love.
Troviamo un lento blues elettrico governato dalla voce di Gahan in Angel, o in Slow, e una ballata elettro-romantica in Heaven, il primo singolo, il cui cantato è travolgente ma non arriva ai livelli di Condemnation a fare da solo il pezzo. Troviamo poi una struttura musicale accattivante, inquietante e oscura, come nei momenti migliori della band, in un pezzo sorprendente, Secret to the End, ma con echi di già sentito. E troviamo anche una discreta noia e piattezza nella track iniziale Welcome to My World e in My Little Universe, pezzo interessante ma promettente un’esplosione che non arriva mai.
Per fortuna a metà album si avverte una svolta: Broken è un pezzo intenso, cupamente cantato, e finalmente più dinamico, e anche se l’album si prende una pausa per The Child Inside, il consueto ma troppo statico Gore-track, (ormai una tradizione per il gruppo, ma non aspettatevi Home o Somebody), si riprende bene con Soft Touch/Raw Nerve. Bisognava aspettare la track 9, una sorta di nuova edizione di John the Revelator, per avere un pezzo che ti fa saltare dalla sedia, e sicuramente farà ballare e muovere la gente dal vivo. L’album si chiude con Should Be Higher, altro pezzo energico e di forte personalità, con la voce di Dave che raggiunge tonalità fin qui inedite in falsetto, Alone, ancora un blues acido, con un bellissimo e drammatico testo, e un altro pezzo energico come Soothe My Soul, che sicuramente sarà un’altra chicca dal vivo, e conoscendo i Depeche e la loro straordinaria resa live si può sperare che Soothe My Soul sia il nuovo Dead of Night (eccessivo accostarlo alla resa di Personal Jesus ma qualche tentazione viene, anche per il recupero piuttosto vistoso di certi campionamenti dal classico di Violator).
Delta Machine si chiude con Goodbye, ennesimo blues dal gusto dark, che giustamente chiude così un album segnato tutto dai toni cupi, seguendo una scia che è stata instaurata a inizio millennio da Playing the Angel, di cui questo Delta Machine si configura decisamente come Parte II, recuperando quanto si era perso con Sounds of the Universe.
Il fatto è che i toni cupi, la forza vocale evocativa di Gahan, l’elettro-dark interessante delle melodie di quest’album non riesce a far superare la sensazione che ci sia molta testa ma poca anima, poca energia, poco cuore o meglio un cuore che batte più lentamente. E inoltre che le basi, gli effetti di sinth, interi passaggi campionati di queste canzoni siano qualcosa di recuperato dal repertorio precedente.
Ma possiamo perdonare i Depeche per questa ripetitività, forse, visto che si è arrivati al 13° album di inediti, e visto che anche i migliori autori ci cadono dopo 30 anni di attività, e ciò è tanto più vero per un gruppo che ha fatto dell’elettro-pop, ovvero di campionamenti e effetti al computer, la sua bandiera.
Siamo lontani dal meraviglioso synth-rock operato con successo negli album gloriosi degli anni ’90 (Violator, Songs of Faith and Devotion, Ultra, Exciter), ma almeno si è recuperato un passo rispetto alla caduta del precedente. E per una band che si avvia ai 35 anni di attività questo non è poco, e comunque è probabilmente tutto quello che si può chiedere ai Depeche oggi.
autore: Francesco Postiglione
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1. Welcome To My World
2. Angel
3. Heaven
4. Secret To The End
5. My Little Universe
6. Slow
7. Broken
8. The Child Inside
9. Soft Touch / Raw Nerve
10. Should Be Higher
11. Alone
12. Soothe My Soul
13. Goodbye
DELUXE BONUS TRACKS
Long Time Lie
02.
Happens All the Time
Always
All That’s Mine