Abbiamo ritrovato il poeta solitario che urla nel deserto di una grande città. Che si perde tra le bellezze sensuali di una capitale, cercando di farsi abbracciare e sconvolgere. Che legge scritto sui muri il nome di Marta. Persa, ripersa, trovata, cercata e dimenticata. Ma, forse, da qualcuno ancora amata. Lui intanto canta che l’oscurità è ovunque, soprattutto nell’amore. Riempie la sua bocca con le parole di “You Have Killed Me”. Ecco, come ti spiega, in poesia, perché ti senti una merda. Abbiamo il più influente cantautore in Uk dopo i Beatles che sa ancora narrare in canto come si può piantare la lama di un coltello nel palmo di Verlaine. Abbiamo ancora un artista che riempie le sue canzoni pop orchestrali con un coro di bimbi romani, “rubato” dai vicoli della capitale, per poi arrangiarlo in “The Youngest Was The Most Loved”. Lui, è il re dell’english pop che voleva la regina morta. Che si perde, ma che non si dimentica. Lui è il distaccato, apatico e indolente suicida dalle labbra in fiamme che urla, sogna e chiede perdono. L’uomo che oggi compone liriche malinconiche citando “Mamma Roma” e “Accattone” di Pasolini, senza dimenticare il neorealismo in bianco e nero di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti. L’artista romantico, che ancora soffre e si dispera cantando la inquieta, surreale e infelice “Dear God, Please Help Me”. La voce che rivisita il languido crooning di Roy Orbison, che cerca estasi e deliri sulle note di “Life Is Pigsty”. O, crede ancora, come in “The Father Who Must Be Killed”, che certe verità, evidentemente non sono fatte per essere dette. Lui, l’ex Smiths, sa perfettamente che non potrà liberarsi facilmente di tutti i suoi tormenti, ne ha la premonizione con “I’ll Never Be Anybody’s Hero Now” e in “I Just Want To See The Boy Happy”. Inni rock cavalcati in falsetto. La solita melopea con quel pericoloso gusto per il posticcio. Il Morrissey del nuovo album, confessa di essere stato un groviglio di sensi di colpa, a causa della sua bruciante umanità. Fa quindi affiorare confusioni e riflessioni accompagnandole a nuovi orizzonti musicali, ricchi di archi mediorientali e sontuose chitarre hard rock, come nell’anti-Usa “I Will See You In Far Off Places”. Mette allo scoperto l’animo, per poi, alla fine rinascere in un unico atto con la ballad ,elegantemente sfiancante, di “At Last I Am Born”. Non è facile partire, perché non è naturale. Partire è uno strappo, una specie di amputazione. Staccarsi è una violenza. Nell’espatrio (anche musicale) si perde necessariamente una parte di sé. Così, si deve ricominciare. Dopo Londra, Manchester e Los Angeles, Moz, così lo chiamano i fan, ha scelto Roma per farci ancora conoscere ed esplorare gli angoli più oscuri e nascosti delle nostre vite. Rileggendo, “sporcando” la tradizione musicale inglese (anche quella degli Smiths) con l’amaro e il felice, con certe armonie virate a pop-rock e a post-punk noir/decadenti che ammiccano alle sonorità cupe e scheletriche di Jens Lekman e Patti Smith. Il bello e dannato Morrissey, ha così scelto molto presto di volgere le spalle agli uomini, di condurre la sua esistenza al di fuori di loro, senza più curarsi di loro. Per poi creare un inno alla serena follia della sua vita in 12 bellissimi brani e per mettere un po’ di balsamo al suo vecchio cuore straziato. Bisognerebbe sapersene andare, ma il vecchio poeta ha scelto di condurre la sua esistenza d’istinto, affidandosi soltanto al caso, alle voglie del momento, a se stesso, senza curarsi di dare un senso al suo destino. Si è scostato dalle strade belle e già tracciate, ha imboccato vie traverse, seguendo i suoi desideri o le sue collere. Se ha cercato qualcosa, probabilmente non ha mai saputo dare un nome all’oggetto della sua ricerca. In verità, ha bramato il sole. Ora, con queste sue nuove liriche, va a raggiungerlo.
Autore: Marco Ligas Tosi
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