Sceglie la libertà espressiva più grande Francesco Giampaoli nella sua musica, si allontana dai riferimenti, dagli schemi, dalla convenienza, dalla facilità, ma senza che questa scelta lasci dietro di sé una scia retorica da primo della classe o da contestatore; Giampaoli, musicista ravennate classe 1970, appare lontano da questo tipo di ragionamenti al punto da sembrare in alcuni momenti – in ‘Tin Tin Deo’, ad esempio – un musicista che ha fatto tanta fatica per liberarsi prima di comporre da ciò che può aver studiato, ascoltato, persino subito musicalmente in passato, bello o brutto che fosse; in Danza del Ventre c’è la musica unica vera protagonista senza distrazioni, e la scelta di un lavoro solo strumentale sembra valorizzare questa direzione, così come persino l’ispirazione etnica jazz ed elettronica sperimentale, ad ogni modo suoi punti di partenza, vengono trasfigurati come attraverso l’immaginazione di un bambino – ‘Riflesso‘ – al punto da non assomigliare a nulla grazie anche alle strutture piuttosto esili dei brani, ad un primitivismo quasi, che rende i 12 strumentali troppo lontani dalla sofisticazione jazz o dalla world music massimaliste, e di richiami commerciali neanche a parlarne.
In libera uscita solista dai Sacri Cuori, che di recente hanno realizzato la colonna sonora della commedia cinematografica italiana Zoran il mio Nipote Scemo di Matteo Oleotto con protagonista Giuseppe Battiston, proiettato alla mostra di Venezia, ecco che il polistrumentista ravennate Francesco Giampaoli immagina che non esistano tante musiche etniche in compartimenti stagni, secondo il contestabile schema riduzionistico cui siamo abituati, ma che in qualche modo la musica popolare dei vari angoli del Mondo risponda tutta in qualche modo ad esigenze, fantasie e sentimenti umani comuni, senza giungere da questo alla visione antagonista internazionale di un Daniele Sepe né all’opposto al qualunquismo new age, ma elaborando un linguaggio nuovo che non è più la somma delle sue parti. Non cadremo dunque nell’errore di associare quel determinato suono alla tradizione mariachi, o balcanica, greca, yiddish, tango, centrafricana o blues perchè un brano come ‘Rosa‘ è tutto ciò e nulla di ciò, senza contare che quando l’elettronica avanza, come ad esempio in ‘Grammatica’, tutto si confonde in una soffusa sonorizzazione ambientale moderna che non lascia spazio neache all’utilizzo strumentale passatista che l’etnica spesso finisce per assolvere, e rende Danza del Ventre ancor più vario ed inclassificabile: fuori dal tempo oltre che dallo spazio.
Riguardo i sentimenti che suscita l’album, della durata di 46’17”, molto è lasciato all’ascoltatore, anche in questo senza indirizzare troppo: niente languore a piene mani, o tempi per danzare; ‘Firma‘ è uno dei momenti più coinvolgenti, assieme a ‘Rosa’, quasi un lied dalla struttura piuttosto ricca, cosa di cui ci si accorge però soltanto prestando orecchio ed attenzione; molto rilevante il contributo degli ottoni e delle percussioni più varie, con molti musicisti che partecipano con gli strumenti più imprevedibili al disco costruendo sulle linee di basso e contrabbasso dell’autore andamenti circolari ed assoli indolenti – ‘Fra Poco‘ – senza però esibizione o eccesso di carattere, in una coralità che nell’omonima ‘Danza del Ventre’ ricorda anche le bande per funerali del meridione.
‘Classica‘ è un altro brano intorno al quale gravita molto del disco; in essa c’è infine una voce umana, un canto lontano, un eco fondamentale nell’intonare la melodia ma che si muove proprio come fosse uno strumento, quasi a relativizzare ancora una volta la presenza umana, che dia spazio alla musica.
Danza del Ventre è un lavoro molto riuscito, sicuramente adatto a chi ama almeno alcuni dei molti generi musicali succitati ma consigliabile a tutti, a patto che si abbia un po’ di voglia di dare alla musica la funzione di stupirci, anche, non solo quella di appagarci come un qualunque bene di consumo.
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autore: Fausto Turi