Quando abbiamo iniziato, a misurare la qualità in base alla quantità? Quando, i numeri hanno preso il posto di valutazioni più articolate e complesse?
Probabilmente, quando la società si è fatta più vasta, con tutto ciò che ne deriva in termini di complessità, si è affermata l’esigenza di ‘contenere’ ed al tempo stesso ‘semplificare’ una grande quantità di informazioni. Un numero, come rappresentazione di un giudizio di valore, è in fondo qualcosa con cui abbiamo dimestichezza sin da piccoli – i ‘voti’ scolastici. E, quanto più aumenta la complessità da valutare, tanto più utile appare la semplificazione numerica.
La cesura vera, in effetti, è quando lo strumento quantitativo ha sopraffatto il merito qualitativo. Quando abbiamo deciso che il nostro ‘benessere’ fosse misurabile in base al quanto abbiamo. Il P.I.L. come metro della ‘felicità’.
Che poi anche i numeri, pur nella loro asetticità, non sono neutri. Quali numeri considerare, è già una scelta ‘qualitativa’. Cos’è più rilevante – ad esempio – il rapporto costi/ricavi nella gestione di un museo, o il numero di ingressi, oppure ancora i biglietti venduti?
Chiaramente, ciascuna di queste scelte ‘a monte’, comporterà diverse valutazioni ‘a valle’.
Ma la questione vera, che in realtà l’approccio quantitativo ha finito con l’espungere, è un’altra, e cioè: qual’è il ‘fine’, la ragion d’essere del museo? Perchè soltanto in funzione di ciò, i numeri possono dirci se le cose vanno bene o male, se ci si avvicina o meno al conseguimento degli obiettivi.
Gli italiani non amano particolarmente i musei. Anzi. Lo dice l’ultima statistica Eurostat: solo un italiano su 4 (il 26,1%), contro una media europea del 43,4%, ha visitato almeno un museo (una galleria d’arte o un sito archeologico) nel corso dell’anno.
Nel Nord Europa, i frequentatori di musei e gallerie dai 16 anni in su sono molti di più: superano i due terzi in Svezia e si attestano attorno al 60% in Danimarca, Finlandia e Olanda. Inglesi e francesi sono un po’ sopra il 50%. In dieci anni, in Italia siamo passati dal 24,7 del 2006 al 26.1; un misero incremento dell’1,4%.
In controtendenza, la Sicilia registra un boom (visitatori +11,7%, +incassi +13,5%) nel solo 2016.
Ma anche i 20 musei resi autonomi dalla riforma Franceschini, danno buoni risultati: +16,7% sui biglietti e +37,7% sugli incassi, rispetto al 2014.
Ma, ancora una volta, questi dati cosa ci dicono? Che gli italiani non amano l’arte? Che i musei sono solitamente poco attrattivi? Ma soprattutto, per dirla con le parole di Francesca Sironi sull’Espresso, “le pinacoteche non sono fabbriche, e la valutazione del loro successo non dipende soltanto dagli scontrini. Quanto dalla missione culturale loro attribuita e dal modo in cui l’assolvono.”
Pierluigi Sacco, uno dei più stimati economisti europei della cultura, dice: “non sono affatto d’accordo con l’enfasi che viene data ai numeri di visitatori. Bisogna riuscire a valutare la qualità di queste esperienze, non solo la quantità. A capire cosa resta e resterà nelle persone.” Philippe Daverio obietta: “Chi ha il diritto di decidere cosa rimane? È solo un bene che aumentino i visitatori.”, per poi aggiuingere: “il museo dev’essere una teca in cui la comunità si riconosce e partecipa”.
Insomma, in buona sostanza, non c’è un’idea condivisa sul ruolo dell’istituzione museale nella società contemporanea, se non in termini assai generici, e quindi ciascuna va per la sua strada, secondo le idee – e le capacità – del direttore pro-tempore. E così, alla fine, ritorna il dominio dei numeri: quanti visitatori, quanti biglietti venduti, quante mostre, quanti incassi…
Se non sai bene cosa dev’essere misurato, conta chi ce l’ha più lungo…
Forse non è proprio come dice Salvatore Settis, gli italiani non sono diventati “nemici dell’arte”. Ma di sicuro non sono aiutati granché, dalle istituzioni pubbliche, ad amarla. A partire dalla scuola, da cui si voleva addirittura cancellare l’insegnamento della Storia dell’Arte.
Soprattutto, si continua a solleticare l’idea che l’arte – e quindi i musei in primis – sia un attrattore turistico (quindi rivolta soprattutto agli ‘altri’), al più un bene di consumo, dove (ed il cerchio si richiude) conta il risultato di marketing, la capacità d’essere o meno blockbuster.
Va da sé che i numeri ‘contano’. Ma per misurare il successo, o meno, di una politica culturale, è necessario conoscerne gli obiettivi.
E torniamo a Daverio; quando, e come, un museo è qualcosa in cui “la comunità si riconosce e partecipa”?
Riconoscersi in un museo è, innanzitutto, riconoscersi in ciò che esso contiene. Che è (apparentemente) più facile, se il museo contiene – ad esempio – arte greco-romana; ma se il museo è egizio, le cose si complicano. E diviene evidente che ‘riconoscersi’ presuppone il ‘conoscersi’ – se stessi, e gli altri.
Ma il museo non è solo un contenitore, un luogo ove si conserva l’arte. E quindi, per riconoscervisi occorre ri-conoscere anche la sua funzione ‘attiva’, culturale.
E siamo ancora, tutto sommato, alla relazione ‘passiva’. Ci si può riconoscere in un museo, pur avendolo visitato una volta e mai più.
Ma la partecipazione è una relazione ‘attiva’. E che non può essere definita in termini meramente quantitativi; visitare un museo 10 volte l’anno non è, di per sé, ‘partecipazione’. Perchè partecipare vuol dire stabilire una relazione condividente, essere parte e non mero ‘osservatore’.
Un museo non è un cinema. Vai, paghi il biglietto, vedi e poi torni a casa. In entrambe i casi, quando esci puoi (o meno) portare con te qualcos’altro oltre l’esperienza visiva. Ma in ogni caso, il cinema – anche quello di altissima qualità artistica – non offre un’esperienza partecipativa. C’è una ‘trasmissione’ – di immagini, di parole, di idee, di emozioni… – unidirezionale. Lo spettatore assiste. Non partecipa.
Perchè la visita al museo sia un esperienza partecipativa, è necessario che comporti un ruolo attivo del visitatore. Deve poter interagire, sia con il contenuto (le opere) che con il contenitore (il museo).
Il museo, quindi, deve predisporsi ad esercitare una funzione ‘formativa’, in modalità ‘performativa’. Non si tratta semplicemente di rispondere ad una più estesa (e/o più profonda) richiesta di informazioni, ma della capacità di offrire risposte ad una richiesta di interazione. Il contenuto (la sua fruizione) deve essere plasmabile, capace di adattarsi alla domanda.
Ed è qui che può intervenire un uso ‘umanistico’ delle tecnologie.
Se è pur vero che negli ultimi decenni lo sviluppo tecnologico è stato molto più veloce della nostra capacità di metabolizzarlo, e di questo si è risentito ancor più in un paese ‘vecchio’ (anagraficamente, ma non solo) come l’Italia, resta il fatto che nel settore culturale l’apporto tecnologico è stato ed è scarso, scoordinato, prevalentemente informativo, e comunque sempre due o tre passi indietro rispetto al mondo ‘esterno’.
Ma se non sappiamo (più) a che servono, i musei, inevitabilmente la preoccupazione prevalente diventa ‘quanto costano’, ed inseguiremo – ancora una volta – i numeri.
Ritrovare il senso dell’istituzione museale, è la chiave per smetterla di ‘dare i numeri’, e riconnetterla con la ‘trama umana’ della sua comunità.
autore: Enrico Tomaselli