Prendete un buon gruppo indie rock, con tanto di radici suburbane della Liverpool industriale. Prendete il suo leader di colore, Kele Okereke, e immaginate che faccia dopo quattro album con la band un percorso solista. Tutto si potrebbe pensare, tranne che si dia all’elettronica e al dub.
E invece così è: dopo The Boxer, prodotto nel 2010 con Polydor, Kele ci riprova e dà alle stampe Trick (aveva annunciato due anni fa un EP seguito di The Boxer, chiamato The Hunter, con tanto di singolo che però non è confluito nel disco attuale).
Niente di più lontano, comunque, dalla produzione rock della band: Trick (chissà che il nome dato al disco non alluda al tranello verso chi si aspettava uno stile simile) è un disco di elettronica.
Più precisamente, suona come un disco dance-floor remixato in forma dub e tribal. Doubt e Coasting danno in particolare questa impressione, ma è l’intero disco a suonare così: perché la voce di Kele c’è sempre, suggestiva e melodica, ma i pezzi sembrano quelli di una disco-band su cui qualche talentuoso dj ci abbia post-lavorato.
Closer per fortuna rimette un po’ le cose a posto, con la sua intro profonda e malinconica, e il suo successivo svolgersi intimo e cupo. Poi però la voce femminile di Jodie Scantlebury e la partenza dei bassi la trasforma, di nuovo, in un pezzo quasi dance, anche se non viene meno la suggestività del pezzo.
L’album resta tuttavia incompiuto: la sensazione è che Okereke abbia prestato la voce a pezzi a cui si sono aggiunti tutti i rimaneggiamenti al computer che tipicamente caratterizzato l’house music. Okereke non era del tutto nuovo alla house: già Intimacy dei Bloc Party flirtava con certe tessiture musicali tipiche del genere, e poi the Boxer risultava quasi un disco dance-rock, se può passare l’abbinamento. Tuttavia Trick sposa completamente il genere, al punto che il Kele dei Bloc Party non sarebbe in nessun modo riconoscibile dentro pezzi come Like We Used To, che danno davvero l’idea di qualcosa di post-prodotto, artificiale.
Non ci sono pezzi davvero beat, tuttavia: quelli che più potevano esserlo (Year Zero, Humour Me, My hotel Room, Silver and Gold) sembrano rimaneggiati in modo da rimanere mentali, introversi, implosivi.
Ecco che allora in un album dove Kele cerca l’intimità e l’introversione nel sound elettrico, i pezzi più riusciti risultano quelli sussurrati, ambient, da interno di stanza al buio: Closer, appunto, o Stay the Night, dolce e romantica.
Si può scavare quanto si vuole nei meandri, certamente interessanti, di questo disco, si può scoprire quante sfumature si vuole, ma non basterà a salvarlo dall’impressione che il 33enne Okereke sia alla ricerca di una nuova identità, non ancora trovata, rispetto al ventenne ribelle dell’esordio tonante di Silent Alarm. Kele sta cercando di ritrovarsi, ma per ora sembra soltanto perduto. E non è una buona notizia.
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autore: Francesco Postiglione