Dopo quasi più di dieci anni dall’uscita dell’album rivelazione del britpop inglese, tornano in punta di piedi i Kula Shaker, i santoni della musica degli anni novanta per eccellenza. Perché un gruppo del genere non aveva bisogno di creare attesa e sospiri attorno alla nuova reunion, non i Kula Shaker, certo.
Lo scorso 20 ottobre il palco del Circolo degli Artisti a Roma si è trasformato nella loro ara sacrificale, un altare sacro. Tutto il luogo un tempio, alle pareti luci, psichedelia e sogni sovrapposti a ricordi, che si sovrappongono a sogni.
I pellegrini stretti, silenziosi, poco prima dell’inizio del concerto. Mezza mattonella ciascuno, è stato il reale prezzo di un Sold Out imminente.
Dopo poco i riflettori si abbassano, gli astanti pronti a ricevere l’epifania del Dio del palco, per vedere se è risorto, come dicono, dal regno della polvere.
Entrano i Kula Shaker come una scarica elettrica, Crispian Mills è il solito vecchio dandy dai capelli di filigrana dorata.
Le vibrazioni di Hey Dude percorrono la folla giù dal palco, che già è una cosa sola con la musica. In successione, senza respiro, i grandi inni sacri degli anni novanta come Tattva e Govinda alternati equamente a brani tratti dal loro ultimo lavoro, Strangefolk, come la bellissima misticheggiante Song of Love/Narayana, che ad ascoltarla sembra di non essersi mai allontanati da lì, quel lontano millenovecentonovantasei- al tempo in cui le Spice Girls erano ancora cinque e Britney Spears era ancora virtuosa e con tutti i capelli al posto giusto.
Un concerto da crepa spaziotemporale, per intenderci.
I Kula Shaker tornano a dare una frustata ai loro eredi musicali, tornano sul palco come in un giorno del giudizio, dicono “guardate! La strada è questa! Siamo noi la Strada!”
Ancora in grado di tenere il palco, come se mai tanto tempo fosse passato dal loro ultimo tour. Ancora in grado di fare musica coinvolgente e inconfondibilmente marchiata a fuoco da note che sembrano appartenere solo a loro, fuori dal sistema di quelle esistenti.
Forse in questi dieci anni di ibernazione creativa, quello che è realmente mancato al gruppo è stato un minimo di evoluzione. Ma sarebbe stato davvero questo che avrebbe voluto il pubblico?
La risposta si è letta a fine concerto, sui volti estatici dei presenti, ancora in delirio mistico ma visibilmente delusi per la grande assenza di pezzi miliari come Sound of drums o Mistycal Machine Gun.
La maggior parte dei presenti era rappresentata da tutti quei ragazzi che, a metà anni novanta, scesero di casa con il motorino in una strada di un mondo senza iPod, solo per comprare un cd che avrebbe segnato per sempre il ricordo di quel periodo.
La vena nostalgica era l’accessorio più in voga al Circolo degli Artisti dopo l’esibizione dei Kula Shaker. Ce l’aveva anche il Nongio, leader indiscusso degli Orange, coppia musicale di fatto che ha aperto il concerto-evento del mese, contattati in seguito alla partecipazione al Nordkapp Indiependent Tour. Ma probabilmente nessun gruppo spalla avrebbe saputo interpretare meglio il contesto del live che sarebbe seguito: spaziando tra testi italiani ed inglesi, la semplicità dei loro accordi e l’innocenza dei pensieri, cattivi solo perché incattiviti, sono il diario musicale di un’adolescenza che si fa fatica ad abbandonare.
Ancora non ci crede il Nongio, di aver calcato lo stesso palco dei Kula Shaker. Passa le mani tra i capelli e ricorda nel giardino del Circolo degli Artisti l’esatto momento in cui si ritrovò K tra le mani. Parla del Britpop e delle sue divinità assolute, dagli Oasis ai Libertines, attraversando il fenomeno Strokes, di quanto tutto è partito da lì, di nuovo, dopo che era stato dimenticato. I Kula Shaker sono tornati sfruttando un’onda nuova preparata da loro stessi alla fine del millennio scorso.
Forse ci si aspettava solo un po’ più di rumore, ma infondo va bene così. Amen.
Autore: Olga Campofreda
www.kulashaker.co.uk