Dritti al punto, come è nelle corde dei Kopek: White Collar Lies è un album eccezionale. Tutto è strutturato alla perfezione, la rabbia crescente che esplode dalle corde vocali di Dan Jordan, chitarra e voce della band irlandese, riff inquieti, capaci di far trasalire, di creare, di trasmettere brividi, tempi e ritmiche fuori dal coro.
Sound metropolitano, di una Dublino completamente diversa da quella che, sulle cartoline e sugli itinerari turistici, viene dipinta esclusivamente a colori pastello, azzurri e verdi, a tratti tondeggianti di nuvole e collinette.
No, qui sembra di essere in uno scantinato buio, un muro di Marshall e Vox puntato verso il cielo a far tremare il soffitto e fuori pioggia, lampi, tuoni. Un bombardamento con tanto di palazzi diroccati e case in fiamme.
Dimenticate le dolci e rilassanti passeggiate sui docks, cancellate dalla vostra immaginazione i freddi e assolati pomeriggi a bere Guinness in uno dei tanti bar sulla Aston Quay.
White Collar Lies è una fredda, distaccata, razionale analisi della società in tutti i suoi aspetti (dalla politica, alla cultura, all’economia e al mondo musicale) che, contemporaneamente, riesce anche ad essere viscerale, calda, profonda e intima.
Un progetto di ampio respiro che si apre con la violenza di Love is dead: “Don’t let the drugs confuse you, maybe love will overcome everyone” è il messaggio.
Anche se, ormai, tutti sono morti. Sono morti i grandi del passato, da Joplin a Sinatra, sono finite le droghe, ma c’è speranza.
Un nucleo caldo che, prima o poi, raggiungerà la superficie. Si prosegue con Cocaine chest pain, uno dei due singoli assieme alla già citata Love is dead. Storia personale che strizza all’occhio, quasi nostalgicamente, alla Seattle degli anni ’90, per quanto riguarda tematiche, testi e sonorità pulsanti, cupe e aggressive.
Dopo la più “tranquilla” Fever, si arriva alla title track: White Collar Lies, summa poetica della band. Liriche agghiaccianti nella loro semplice e cruda emotività, dirette, lucide, denotative. Il mondo della politica, della guerra “di liberazione”, finalizzata esclusivamente alla raccolta economica, all’acquisizione del potere, al ritagliarsi un ruolo strategico su scala mondiale.
Più delicata e più “radio friendly” la terzultima traccia, intitolata Floridian. Piuttosto diversa sul piano stilistico e compositivo, procede suadente verso un epico pop-rock, ma resta comunque di ottima fattura e molto gradevole.
L’album si conclude con l’inquietante Sin City, a sigillo dell’ottimo lavoro compiuto dalla squadra Jordan/Kinsella/Cooney.
Un rock moderno che racchiude in sé la voglia innovativa e la forza deflagrante di una band emergente attentissima al messaggio ma che, allo stesso tempo, dimostra l’esperienza di un gruppo che si esibisce da un decennio di fronte a migliaia di persone di tutto il mondo.
Autore: A. Alfredo Capuano