In un giorno a caso dell’anno provate ad andare dallo psicanalista, da un genitore o da un confidente particolarmente fancazzista, occhei? Provate a dire le seguenti parole:
Mi trovavo al centro di un deserto sabbioso, assolato, così a picco i raggi che non esisteva l’ombra neanche a scavare. Intorno a me scheletri di cetacei arenati di ferro e cemento, che erano fabbriche, che erano scheletri di fabbriche. E poi un grande palco, palloni giganti che volavano sulla folla, una partita a beach volley tra la musica e il caos. Un autobus in panne su una duna, gente che a turno ci suonava sopra. E ancora niente ombra, l’ombra non esiste, fino a quando non arriva la notte, che cala pesante sulle teste come pesanti sono le pulsazioni amplificate del suono. Del Suono.
Le possibilità che possono aprirsi davanti a questo racconto sono infinite. Di seguito elencheremo le più esemplari:
Per quelli di voi che si sono recati dallo psicanalista, questo- se di scuola freudiana- potrebbe cominciare ad annuire, rassicurarvi e attribuire la visione al vecchio conflitto irrisolto con vostro padre. Poi vi affiderebbe allo psichiatra. Se di altra scuola, si limiterebbe ad affidarvi allo psichiatra e/o alzare la parcella.
Per quelli di voi che sono andati da un genitore: se si trattava di genitore femmina, molto probabile un segno della croce e relativa domanda “chi ti ha insegnato a drogarti?”; se genitore maschio, probabile cinghiata fine-ottocentesca e relativa domanda “ti droghi?”.
Per quelli di voi, infine, che hanno scelto l’opzione confidente: prevista domanda “che ti sei calato? Ma te n’è rimasta ancora?”.
Tutto questo, per un periodo casualmente selezionato nell’anno solare. Non tuttavia nel weekend compreso tra il nove e il dieci luglio duemilaundici.
Abituati negli anni precedenti a vivere il Neapolis Festival in un’atmosfera da giardino segreto, erba soffice sotto i piedi e il bianco candido delle colonne della Mostra d’Oltremare, l’impatto con l’ultima edizione del festival è stato qualcosa di molto simile alla psichedelia dopo una sveltina con il cyberpunk: si mette piede nell’ex sito dell’ex Italsider posseduti dalla polvere e dal caldo e allora ci si chiede da che parte si accede all’area 51, dove sono gli zombie e dove la protagonista figa di Resident Evil.
Il Neapolis 2011 per location e line up è stato un vero e proprio festival internazionale, senza niente da invidiare a quelli americani d’Arizona, California e succursali. Perché c’era proprio tutto: le band del pomeriggio, che non conosci ed inizi a sentire con la periferia dell’orecchio e poi scopri che invece il palco lo tengono troppo, e allora chissenefrega del caldo: The Shak&Speares e i Songs For UlanNew York New York e When The Clouds – il secondo giorno- sono scesi nell’arena e hanno portato il sudore in ebollizione. “gli Shak&Speares Sono di Bombay” aveva detto una ragazza davanti a me, segnando il nome dei primi sopra un foglio, a penna (perché le cose fighe uno se le immagina sempre venire da troppo lontano, mica a pochi chilometri dal casello Caserta Sud. E invece.).
Sì, l’ho detto, al Neapolis 2011 c’era veramente tutto: i fenomeni brand:new del filone indie-rock, i più amati dagli hipsters, quelli che la comandano nella nicchia del radical chic. E allora c’erano gli Architecture in Helsinki direttamente dall’Australia, freschi del lancio di Moment Bends, che hanno colorato l’ora del tramonto di aperitivi, biliardini, cocktail, inseguimenti da spiaggia, surfisti che lucidano le tavole usurate dopo una lunga giornata di onde. Poi ci sono stati i Crocodiles, il tramonto del secondo giorno: “non siamo una band da pomeriggio” mi aveva detto Charles, il chitarrista, “abbiamo i vestiti troppo scuri”; e allora il tramonto s’è fatto scuro, come quello annebbiato dalla polvere, nelle corse di moto, nei film di James Dean, Easy Rider, Contea di Hazard. Trapianto di California sul Golfo di Napoli. L’attacco del live con Neon Jesus, un pezzo che non conosce vie di mezzo, ma va dritto allo stomaco. Non esistono zazzere neomelodiche che tengano: qui si parla solo la lingua dei ciuffi greasy che puzzano di salsedine sulla cresta dell’onda.
Al calar delle tenebre il pubblico era il passante incuriosito sulla scena di un incidente, che piano piano si stringe e si fa vicino alle lamiere, per vedere cosa sta succedendo: quando sul palco sono saliti i Mogwai, il cratere dell’italsider ha cominciato a dimenticare la polvere e a riconoscere su di sé il peso dei corpi rapiti. Chè se l’Enterprise avesse avuto una cappella ed un organo, nelle domeniche siderali, lo avrebbero suonato i Mogwai; chè se l’Apocalisse avesse scelto una colonna sonora ufficiale, l’avrebbero suonata i Battles, che si è rivelatala band postmoderna per eccellenza: da un po’ di live costretti ad affrontare l’assenza del frontman, lo hanno riprodotto in audio video e ci hanno suonato sopra, e sono stati perfetti. Alla fine del mondo, nessuno ha più bisogno di un leader, sembrano dire. E lo dicono.
Ed è stata allora davvero la fine del mondo? La line up del primo giorno vede Skin, angelo della morte, ad annunciare lo scioglimento del primo sigillo: le sue ali dorate che sono squame, che sono cresta d’acciaio, che sono armatura, la voce acida, stridula che si fa largo tra le chitarre massicce. “Lo sai che ha quarant’anni?” mi dice un ragazzo, quando commento la voce della pantera rock che ci sta davanti, che la facevo più potente, avevo detto. E quindi tutto rispetto: la leader degli Skunk Anansie salta da un punto all’altro del palco e sembra non essere mai a corto di aria. Patto col diavolo.
Poi squillano le trombe. Sodoma e Gomorra precipitano all’inferno, nell’ultimo giorno, con la perdizione degli Hercules and Love Affair e gli Underworld. Siamo tutti parte della generazione perduta.
Fuochi d’artificio. Canto della fenice. Uscita di scena con la battuta migliore della sceneggiatura.
Al Neapolis c’è stato veramente tutto. La sola cosa che è mancata, in questa quindicesima edizione, è stata la gente -popolo da festival- feedback che fa in modo che non ci si suoni addosso a vicenda, come purtroppo in alcuni momenti è accaduto. Si tratta proprio di quella Napoli che si lamenta del fatto che in Italia non ci sono festival come oltralpe, che a Napoli non c’è mai nulla e pur volendo andare fuori si spende sempre troppo. L’atmosfera della fine si è fatta sentire, tra un cambio e un altro di palco, quando le luci si facevano più chiare a illuminare gli spazi vuoti delle tribune che solo un anno prima per Jamiroquai sarebbero state gremite: “questo è l’ultimo anno” ha detto qualcuno. E allora forse tutti cominceranno a ricordarsi di quanto era bello avere un Festival nel cuore della città, due giorni pieni ad accompagnare il sole fino al tramonto e oltre, alle soglie della notte fonda. Questa Napoli miope che vede le cose solo da lontano, e ama partecipare alla tragedia dell’assenza, più che all’orgoglio della presenza. Perché se anche a Napoli si fanno le cose, come si fa poi a lamentarsi che non si fanno?
E allora forse addio, Neapolis Festival. Tanto il prossimo sarebbe stato nel 2012, quindi vuoi o non vuoi sarebbe finito anche Sanremo. Potremmo dare ragione ai Maya.
Autore: Olga Campofreda
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