Perchè il film sulla strage stalinista non è stato richiesto (quasi) da nessun cinema
La storia non solo la fanno i vincitori, ma la filmano anche. Con abile trucco alla Orwell, i sovietici grandi-fratelli fecero credere al neoconquistato popolo polacco che la strage di Katyn fosse di mano nazista. Non era così, almeno quella. Furono i servizi segreti russi, compulsati da Stalin. Quindicimila tra ufficiali a graduati dell’esercito polacco furono trucidati: per loro, prigionieri, niente Convenzione di Ginevra: un proiettile alla nuca e via. Una verità scomoda anche sessant’anni dopo. Tanto che questo film, Katyn, ha trovato porte chiuse ovunque e scarsissima distribuzione. E’ stato stampato in molte più copie di quante non siano le sale che invece lo richiedono. Boicottaggio strisciante? Mah, forse le sale e sicuramente i multiplex non osano puntare su un presumibile polpettone e non lo richiedono (la parola regista polacco fa venire in mente i cineforum alla Fantozzi) o forse, se non ammainiamo del tutto il pensiero, la spiegazione può anche essere più terribile.
In Italia, e lo domandiamo nella maniera più disarmante, vige una scorza di resistenza intellettuale verso i crimini rossi? Sul nostro controverso passato postbellico pende adesso, al cinema, “Il Sangue dei Vinti” tratto dall’indagine revisionista di Giampaolo Pansa, e in tv, un paio d’anni fa, è stata trasmessa una fiction non irresistibile sulle foibe. Abbiamo dato, concesso, alle voci anticomuniste, sembrerebbe. E invece Katyn bisogna vederlo, proiettarlo nelle scuole. Prendiamolo come un atto pedagogico: al di là della giustezza nella ricostruzione dei fatti e della tragedia storica, la tesi del regista Andrzej Wajda punta infatti sulla mistificazione che cova nei media di massa dei regimi non democratici (quello nato sotto falce e martello) o non completamente democratici (alcune nazioni occidentali, sudamericane e lo stato indiano).
Il parallelo, banale o manifesto decidete voi è questo: si parte dalla strage commessa in un bosco della Bielorussia nel ’40 che diventa con maquillage di montaggio del ’41 e muta colore politico, e si arriva agli eccidi dell’oggi, che cambiano mandanti ed esecutori a seconda del tg e del giornale che li racconta. E poi, teoria a parte, c’è naturalmente un motivo anche solo stilistico per dedicare un’oretta e mezzo di tempo a “Katyn”, film scritto con accuratezza e mai slabbrato. Montato secondo un modello di flashback “indolore”, nè troppo indulgente né incatenato alla logica della catartica violenza di guerra.
La fotografia dei volti ricorda i drammi dipinti, perfettamente dipinti, di Kiewslowsky. Dopodichè però a colpire di più sono le immagini di archivio. Una volta naziste, un’altra staliniste. Con il medesimo prete a concedere pietà ai teschi riesumati. Il cinema qui si arrende e alza altri sipari.
Autore: Alessandro Chetta