Calarsi nel mondo chiamato Vonneumann significa perdere parecchie certezze, quelle classificate in alcuni anni di mere stilizzazioni, per intenderci. Quelle colonne che tutti noi nel web e non utilizziamo per appoggiarci la schiena quando ci sentiamo persi, senza renderci conto di quanto siano già sicuri i basamenti che le reggono e da cui si innalzano. Alcune chiacchiere, forse un po’ di più, con questi quattro simpatici ragazzi romani mi hanno aperto i pori della pelle su cosa patrocinare quando si è immersi nei pensieri o quando ci si trova condizionati dai giudizi degli altri. Occasione di tutto ciò l’uscita del loro ultimo lavoro, Il de’ blues edito per Retroazione.
È improprio chiedervi quante particelle di romanità, intesa come capacità di ridere di se stessi, giocano nel vostro modo di approcciarvi alla musica o ritenete sia una mia castroneria buttata lì per lì?
No, no, c’hai preso. È cazzeggio concettuale da hostaria. La romanità è un fondamento di Vonneumann. A partire dal nome del gruppo. No, aspetta. Quello no.
Il de’ blues, vostra ultima fatica, era in gestazione da un po’, prima che il tempo lo portasse a spasso. Negli intenti di qualche anno fa era nato così come è stato registrato o il tempo, per l’appunto, ha un tantino stravolto i piani?
Il de’ blues è una sorta di summa della scrittura di vonneumann da jaser/lægo in poi. Se volessimo risalire al momento in cui ogni singolo riff è stato scritto, probabilmente segneremmo date in calendari a partire dal 2003. Tuttavia, le canzoni così come sono sul disco, prendono forma nel periodo 2005-2006, una volta finita la composizione di Switch parmenide. Switch per noi è stato il quarto disco di scrittura mista ad improvvisazione, con arrangiamenti molto complessi, in gran parte determinati in post-produzione: volevamo cambiare rotta. Quindi abbiamo deciso di registrare delle session di pura improvvisazione e di lavorare parallelamente a composizioni strutturate, quasi completamente prive di elementi free, partendo da quei giri che avevamo accumulato da Jaser in poi. Questo lavoro è durato all’incirca 2 anni, e nel 2007 ci ritrovammo a disposizione abbastanza materiale improvvisato per fare un disco che reggesse da solo e, contemporaneamente, 7 tracce di “canzoni” con cui farne un gemello. A quel punto siamo andati a registrare da Ivan A. Rossi i 7 pezzi per il disco (estate 2007) il quale è stato poi masterizzato da Gianni Versari (Nautilus) nel 2008. Dopodiché il disco è rimasto in un cassetto… anzi in molti cassetti… Nei tanti cassetti delle innumerevoli etichette che lo hanno ignorato! Solita frase (quando si degnavano di rispondere): “Molto interessante, ma abbiamo uscite programmate fino al tremila”. Nel 2013, dopo aver lavorato al remix di Spam&Sound Ensemble (Retroazione Compagnie Fonografiche), ci è venuta l’idea di pubblicare questo “disco maledetto” sempre con Retroazione. Da lì è stato tutto in discesa: in 5 mesi il disco era fuori. Tralasciamo la storia della Differential: etichetta americana che ci contattò nel 2009 ma che poi ci mollò l’anno dopo senza spiegazioni a disco quasi pronto. Bella gente. Dunque, per rispondere alla tua domanda in poche parole, il de’ blues viene alla luce esattamente com’è stato arrangiato e registrato nel 2007. Puoi pensare al de’ blues come una macchina del tempo: quando lo ascolti ringiovanisci di 7 anni!
Vi scoprite poco, a partire dai titoli delle vostre canzoni, spesso curiosi abbozzi di humor non sense o, come qualcuno ha affermato, gratuiti riferimenti forse volutamente slegati dal corpo musicale. Due sassolini dalla scarpa me li dovete togliere. Primo, perchè vi chiamate Vonneumann? Andavate a scuola insieme a Roma, al Von Neumann? Dite di sì vi prego, così mi levo dalla testa bizzarre soluzioni mat(h)ematiche!
Il nome vonneumann era nato con l’idea di nome “neutro”, senza proclami impliciti o indicazioni sulla musica (tipo “Metallica”, “Prophilax”, “Notorius B.I.G.” o “Anal Cunt”). Viene ovviamente dal noto scienziato ungherese naturalizzato americano, John von Neumann, in quelle epoche pre-wikipedia associato principalmente all’ innocuo modello architetturale semplificato dei calcolatori elettronici noto come “Architettura di von Neumann”, anche per strizzare l’occhio all’idea del computer come elemento ordinatore della musica che avremmo fatto. È una sorta di nome programmatico, giusto per contraddirsi un po’. Certo leggendo nella sua biografia del suo non trascurabile contributo a imprese decisamente meno innocue, magari ci pensi prima di intitolargli un gruppo. Figuriamoci una scuola.
E comunque sì, i titoli sono sì assolutamente slegati dalla musica e, sì, totalmente gratuiti e spesso autoreferenziali. In fondo è musica strumentale. Tuttavia, siccome il gioco sul linguaggio per noi è parte integrante del divertimento, mentre suoniamo o scriviamo ci affezioniamo a idee o piccoli divertissement che poi assurgono a emblema stesso del brano, tanto che il brano alla fine non può che chiamarsi in quella maniera specifica. Le parole tracciano la storia temporale dei nostri pezzi, delle nostre vite.
È lecito parlare dei due fratellastri il de’ come due concept, cioè un modo tutto vostro di provare a dare delle origini a ciò che è/è stato il metallo e il blues?
È senza dubbio lecito parlare di questi due fratellastri come concept, però forse più che di due concept separati sarebbe più opportuno parlare di un concept unico. Inizialmente pensavamo di fare uscire il de’ blues/metallo come un doppio CD. Alla fine decidemmo di separarli, anche mossi dalla convinzione che sarebbero usciti a brevissima distanza l’uno dall’altro. Poi la vita, come sempre, ha la meglio sui programmi precostituiti ed è andata che sono passati 5 anni fra i due dischi. L’idea di provare a tracciare una nostra storia del blues o del metal è affascinante ma non del tutto esatta: forse questo esercizio è più simile al tentativo di esorcizzare ciò che ci è alieno, distante. In questo processo di spaesamento collettivo che ci ispira, porsi come guida un archetipo antitetico può stimolare ad esplorare zone inconsuete. Che poi la magia sta proprio nel fatto che un po’ di blues e un po’ di metal alla fine hanno fatto capolino nei dischi.
Vi occupate direttamente voi di eventuali sovraincisioni o lavori di post produzione?
Diciamo che non esiste post o pre, è tutto parte della produzione, ed è tutto fatto da noi. Il metodo è piuttosto disordinato e si basa su tre semplici concetti: 1) si deve registrare tutto, 2) si può fare tutto, 3) ci si deve divertire. Pertanto ci si può ritrovare a provare decine di volte un contorto riff mathematico come a sovraincidere una chitarrina giocattolo a una registrazione fatta in casa nel 2003. Tutto questo è possibile perché negli anni, partendo da quello che era un garage, ci siamo costruiti un piccolo studio, che è la nostra sala prove e il nostro studio di registrazione nonché laboratorio. Di solito tutto nasce e cresce lì. Per il de’ blues, invece, per la prima volta in vita nostra ci siamo affidati ad un esterno: Ivan A. Rossi, che ha registrato anche Bachi da Pietra, Zen Circus, e tanti altri. Ivan, cui siamo legati da un’amicizia di quasi 3 lustri, per anni ci ha chiesto di registrare un nostro disco, e questo, essendo interamente scritto, si prestava moltissimo. È stata una bellissima esperienza, per noi una novità assoluta, siamo molto soddisfatti.
Quando siete in fase empirica, avete sempre una sensazione di chiarore in quello che fate oppure, e questo passatemelo col beneficio di inventario, a volte sentite che qualche giro non dia proprio i frutti che speravate? In questi anni, quando avete ritenuto necessario scrivere prima di suonare?
I pezzi nascono quasi sempre da una fase di improvvisazione in cui esce fuori uno spunto su cui poi si decide di costruire. E la costruzione, come si teorizzava in jaser/laego, è sempre “verticale” (ognuno aggiunge il suo a una parte) e “orizzontale” (si sviluppa una prosecuzione). Tendiamo, e questo è evidente ascoltando i dischi, a non adottare il metodo di fare un giro più o meno all’infinito e svariare su esso. Sarebbe troppo non-scomodo, figurarsi. Evitiamo anche di appoggiarci a schemi standard tipo verse-chorus-verse-ecc. Ed è questa mancanza di un appiglio persistente nei pezzi che forse fa percepire la nostra musica come “difficile”. In effetti, spesso la fase compositiva è costellata di discussioni e di continui ripensamenti… sarà che l’assenza di riferimenti è poco gestibile anche per noi! Però è l’unico modo di comporre che ci stimola davvero.
Di rado accade che qualcuno di noi porti un riff o un groove “scritto” e abbia in mente un’idea tutta sua per un possibile arrangiamento, ma l’alchimia stupefacente del gruppo sta nel fatto che, non appena gli altri scrivono le loro parti e il pezzo prende forma, può andare in direzioni totalmente opposte all’idea originaria. La composizione a quel punto è guidata dal “gusto” che, pur essendo molto eterogeneo tra noi, quando lavoriamo assieme assume una forma “collettiva” che si trasforma quasi sempre in uno stupore assoluto che ci esalta/emoziona e ci porta a dire: “occhèi, non può che essere lui”. Un esempio eclatante è half cab segmento (il primo pezzo di switch parmenide): ideato dal Bof come un madrigale e completamente stravolto dagli altri. O blackémon, che nasce con un riff slap/blues e si trasforma in tribal/techno… È per questo che preferiamo parlare di Vonneumann al singolare: ha tutta una sua autonomia che in grande parte prescinde dalle singole individualità.
Digressione: te la possiamo fare noi una domanda? Leggiamo in quasi tutte le recensioni che il de’ blues è un disco “difficile”. Poi uno legge le recensioni dell’ultimo (bellissimo) OvO, per citare un disco non proprio facile, e questa parola non compare mai. Eppure se li metti a confronto, a noi sembra più ostico Abisso. Secondo te, da dove nasce questo scollamento?
Per arrivare infine alla tua domanda iniziale, sì, quando l’alchimia viene meno, spesso si finisce contro il muro del “e mo che famo?”. E spesso ci sono due forti derive in vonneumann che tirano in direzioni opposte: il caos e l’ordine. Però registriamo sempre e mettiamo da parte. Prima o poi, in un modo o nell’altro, si usa tutto. Basta trovare l’ingrediente giusto da aggiungere; a volte è solo la consapevolezza.
Secondo sassolino voyeristico. Ditecelo, chi è la donna misteriosa che vi accompagna nelle copertine?
Prima babysitter, poi groupie, poi moglie. Infine, mamma. (Sempre e comunque presente nella storia di vonneumann).
C’è un tempo per rompere gli schemi e un tempo per pensare agli infinitesimi, mi vien da dire; Un bel morover per braun è un sussulto di genio che fiuta le gole americane e nel contempo tocca altri continenti, altre dimensioni, diciamo picaresco/orientaleggianti. È nata camminando o correndo?
C’è una strana follia in questo pezzo che ricorda un po’ la vita… tranquilla fino a quando non ti accorgi che c’è qualcos’altro…e allora ti crogioli nell’ironia incontrollata pensando a chi ascolta e rimane perplesso (magari in giacca e cravatta).
A dirla tutta, morover è nata nettamente zoppicando: unendo improvvisazioni casalinghe, riff fuori contesto e serate di gala in ambasciate con Ospiti di Prestigio. In sé porta una dilatazione dei tempi (prima molto lenta, poi i vari rallentando/accelerando che si susseguono) che rispecchia la sua composizione temporale: morover attraversa circa 3 o 4 anni, se si considerano tutte le parti scritte, nei vari momenti diversi. L’anima orientale deriva dal gala e dal prestigio.
Digressione sull’antico dilemma del canto e del testo: Sinclair Lewis, premio nobel nel 1930, c’aveva visto già lungo. Diceva che non si può impiegare il tempo in modo peggiore che nello scrivere versi. Ovvio che parlava dei versi di una poesia, ma credo non sia fuoriluogo applicare tale massima alla musica. Che ne pensate?
Posto che il ragazzo era probabilmente ironico, immaginiamo tu alluda al fatto che non ci sono testi nei nostri pezzi, ovvero che siamo un gruppo strumentale. O forse alludi al fatto che investire una gran parte della propria vita a strimpellare non abbia granché senso? Proveremo a rispondere a entrambe le cose.
Quando suonavamo con Arborio, l’efferre cantava e c’erano addirittura i testi. Tuttavia, il passaggio da Arborio a vonneumann ha segnato un profondo mutamento paradigmatico, che comportava in primo luogo la scelta di abbandonare schemi classici di scrittura, ma anche una relativa astrazione e annessa perdita di punti di riferimento. In quest’ottica liberarsi del linguaggio, con tutti i filamenti semantici che comporta è stato quasi obbligatorio, per dare più spazio alla musica. Fai anche conto che nel primo disco di vonneumann, l’invariante.tmp, una delle caratteristiche di molti pezzi è l’elasticità del numero di battute di singole parti, il che rende quasi impossibile sovrapporci dei versi. Sarebbe stato diverso se avessimo avuto un cantante à la Phil Minton (Roof, Four Walls, …) che avrebbe potuto improvvisare vocalmente sull’improvvisazione del tempo, ma noi non siamo in grado di simili virtuosismi.
Differente è invece il discorso, spesso accampato o sottinteso, che la musica è un linguaggio universale, in contrasto con le parole che invece sono un linguaggio mediato. vonneumann se ci pensi, non fa altro che mettere in discussione questo stesso principio: certi nostri giri sarebbero anche orecchiabili, se vonneumann non li farcisse così spesso di ostacoli per l’ascoltatore. Eppoi si è visto che culture diverse generano percezioni diverse di identiche melodie. Quindi è più il contesto relativo a mediare il significato, piuttosto che un brano in termini assoluti. Se ci pensi, Discovery dei Daft Punk ha le vesti di un disco pop/dance, ma in realtà è un disco metal sotto mentite spoglie. Lo spaesamento, ecco, questo è ciò che ci interessa. E ciò può avvenire con qualsiasi forma di linguaggio, sia con la musica che con il testo (pensa ai nostri titoli…). Sebbene abbiamo eliminato il cantato, abbiamo deciso di proseguire il discorso linguistico (e tentare quindi di rendere meno avulsi i nostri titoli) attraverso i sotto-siti dei vari dischi. Per ogni traccia di ognuno dei nostri dischi c’è una pagina web in cui sviluppiamo le idee che hanno portato a quella specifica composizione. Il sotto-sito del de’ blues è attualmente in lavorazione e sarà presto online.
Probabilmente è vero che non si può impiegare tempo in maniera peggiore che nello scrivere versi, ma solo versi che non generano meraviglia in nessuno. Quando prendi in mano un libro di Zanzotto, c’è una furia visionaria che ti stende.
Per quanto riguarda buttare gran parte della propria vita in un’attività semi-ludica, improduttiva e fallimentare (suonare), c’è poco da dire eccetto: non ne possiamo fare a meno. Banalmente, è una dipendenza. E come tutte le dipendenze, ci ha forgiato la vita in mille maniere. Ma basta un attimo, quando entriamo in sala, basta che ci meravigliamo a vicenda mentre scriviamo, che qualcuno modifichi ciò che ha proposto qualcun altro facendo nascere qualcosa di del tutto inaspettato, commovente, ironico. A volte basta questo e il resto scompare.
Volevo chiedervi come vedete la scena impro-math post in italia oggi (gruppi, label, etichette) e se siete attratti piuttosto dalle produzioni estere come spesso accade.
Argh, ci cogli non del tutto preparati. Si può dire che non ascoltiamo (più) molta musica di genere impro-avant-matematico senza sembrare snob? E si può non sembrare snob facendo musica più o meno di questo (o questi) genere? Fai anche conto che siamo un po’ vecchiotti, e come tali, siamo affezionati a certe uscite del passato. “Però l’ultimo dei (una band italiana a piacimento, tipo vonneumann) è molto interessante.” Sull’esterofilia musicale, non possiamo pronunciarci del tutto: se un disco è valido, è valido a prescindere. Forse la differenza sta nella promozione: le produzioni estere di norma hanno una promozione più ad ampio raggio e quindi raggiungono più ascoltatori. Le produzioni nazionali è un po’ come se fossero pensate per nascere e morire in Italia. Questo le limita e le può far apparire come più provinciali, anche se in ambiti musicali leggermente diversi dal “math/post” questo non è necessariamente vero: a quanto ci sembra gli italiani sono eccezionali nell’elettroacustica, pensa a Luminance Ratio, ai cari vecchi ¾ Had Been Eliminated, a molti gruppi del giro Fratto9 e Boring Machines, ci sono moltissimi gruppi che fanno cose notevolissime e che magari poi suonano più all’estero che non in Italia… quella scena particolare ci piace molto e la consideriamo migliore di molte cose estere.
Potrebbe sembrare banale e un po’ pretenziosa questa domanda, ma vorrei chiedervi che significato ha per voi il concetto di suono e cosa nella sua parabola vi attrae maggiormente.
Quando tutti i riferimenti li hai buttati alle ortiche, spesso l’unica bussola è il suono. Capita non di rado che semplicemente il timbro materico di un passaggio/loop o i grani di una particolare distorsione possano dare vita a un pezzo. In quei momenti il suono diventa quasi tutto: è la tua mappa e contemporaneamente un labirinto da decifrare. È un’arte che non puoi toccare ma che ti tocca fisicamente, un incidente e un programma preciso. Alla fine è solo un po’ d’aria che si sposta, ma è un’aria diversa, che può cambiare la vita delle persone (ad esempio: la nostra). Nel de’ blues ci sono vari esempi di queste epifanie. L’amore per il riff portante di blackémon deriva sia dal tempo bizzarro, sia dal suono slappato/slabbrato della chitarra. Oppure pensiero di katiocs, che nasce e ruota intorno a tre note di basso le quali, suonate assieme, creano dei battimenti molto particolari. Un basso che si crede un piano e che viene redarguito da un piano che si crede una percussione.
www.vonneumann.net
www.facebook.com/band.vonneumann
www.acebook.com/RetroazioneCompagnieFonografiche
autore: Christian Panzano