Inseriti nel filone funk-punk in virtù di un singolo (‘Mr, you’re on fire mr’) che resta il frammento più accessibile (se non l’unico) di tutta la loro discografia, i Liars non ci hanno messo molto distaccarsi da un’etichetta che rischiava di segnarli per sempre. Il loro sperimentalismo rumorista si inserisce piuttosto nella tradizione noise della Grande Mela, arricchendosi però di un peculiare senso del ritmo che dal vivo viene espresso con l’utilizzo di due batterie.
Il concerto di stasera però è aperto da uno storico gruppo locale, i Radio Zero, band tosco-ligure nata dalle ceneri di una piccola leggenda nostrana degli anni 80, i garage rockers Polvere Di Pinguino. Non è la prima volta che mi capita di assistere ad una loro esibizione e so bene quale carica riescano a sprigionare i cinque sul palco, con la loro bussola personale diretta sempre verso l’Australia di Radio Birdman e Saints. Tuttavia la quantità di watt e la potenza del loro set, mi lascia letteralmente esterrefatto e, a dirla tutta, un po’ amareggiato pensando alla fortuna che i Radio Zero meritebbero al di fuori del nostro angusto paese.
Ma non c’è tempo per disperarsi. Dopo un breve cambio di palco arrivano i tre Liars ed è una catarsi di distorsioni, ritmi tribali ed urla belluine. Difficile stendere un giudizio su una performance del genere. Come una specie di “Rorschach test” musicale, ciascuno può vedere ciò che vuole nel rumore organizzato del trio di New York. Quel che è certo è che il loro non è sperimentalismo fine a se stesso, non c’è spazio per l’improvvisazione; i frammenti in cui si suddivide il concerto iniziano scomposti, disarticolati, ma si coagulano improvvisamente intorno a ritmiche marziali, ricordando in questo l’hardcore destrutturato dei Truman’s Water. Il cantante, Angus Andrew è l’elemento catalizzatore di tutto lo show: si arrampica sulla scarna scenografia e incombe sul pubblico con uno sguardo che sembra scrutare in luoghi terribili della mente umana. I suoi movimenti sgraziati ricordano quelli del primo Nick Cave e di tanto in tanto imbraccia una chitarra per lasciarsi andare in accompagnamenti minimali, come minimale è il resto del set. Gli altri due terzi dei Liars sono il batterista Julian Gross e il polistrumentista Aaron Hemphill che per gran parte dello spettacolo picchia come un forsennato su un secondo drum kit, mentre sul finale infierisce sul pubblico con campionamenti e rasoiate di synth.
Appare subito evidente che non c’è spazio per nessuna apertura melodica e bisogna aspettare oltre la metà dello spettacolo per ascoltare qualcosa che assomigli ad una canzone. A quel punto infatti la ed Andrew innalza mantra psicotici come un muezzin in acido e il resto della band lo segue con spirali di suono paranoico.
Al termine c’è ancora tempo per un folle bis in maschera, poi tutti a casa a chiederci che fine abbiano fatto i brani del loro primo album. Tutti concordi però su un fatto: l’impatto emotivo dello show a cui abbiamo assistito è qualcosa che resterà con noi a lungo.
Autore: Diego Ballani