Giunto alla maturità, il regista newyorkese con il suo ultimo lavoro, Magic in the Moonlight, conferma di aver individuato la formula per la creazione del film perfetto: godibile, senza eccessive pretese, eppure dotato di una profondità disarmante.
Quali sono le caratteristiche che fanno di un illusionista un mago? La naturalezza e cioè la capacità di muoversi nello spazio in modo fluido, senza meccanicismi evidenti e tentennamenti traditori; il tempismo, essenziale per attuare l’illusione e soprattutto, il misdirection e cioè la capacità di direzionare l’attenzione del pubblico dove e come si vuole. Woody Allen dimostra di conoscere bene i trucchi del mestiere e ancora una volta celebra un’arte, quella dell’illusione, che il cineasta newyorkese aveva fin da ragazzo sognato di esercitare e che, con la passione per il cinema, è riuscito in qualche modo a sublimare. È sin da ragazzo che, proprio come lo Stanley Crawford splendidamente interpretato da Colin Firth, protagonista della sua ultima fatica, Magic in the Moonlight, Allen bramava di fare il prestigiatore, anzi per meglio dire il mago. Sembra che sin da adolescente, trascorresse ore a esercitarsi con carte da gioco, fazzoletti, anelli e palline. E anche quando fu colto dalla magia del cinema la passione per l’illusionismo non cessò, cominciando a manifestarsi seppur in maniera più o meno latente nelle sue opere: non ultime, Scoop, dove il regista interpretava Sid Waterman, un divertende mago da cabaret e in Magic in the Moonlight dove è proprio l’illusione a fare da protagonista, in una costruzione narrativa che fa della discussione filosofica il perno centrale del film, in una riflessione esistenziale sul significato della vita, su ciò che siamo e ciò che è intorno a noi.
Dopo il trionfo di “Midnight in Paris” (il più grande successo al botteghino della sua carriera, con un incasso di oltre 150 milioni di dollari nel mondo) e la conquista del quarto Oscar (per la miglior sceneggiatura originale), il cineasta statunitense torna in Francia – nell’incantevole scenario offerto dalla Costa Azzurra – con un piccolo capolavoro di ingegneria cinematografica. Magic in the Moonlight si configura difatti come un artificioso stratagemma, una piccola grande magia allestita con somma maestria in cui il celeberrimo autore newyorkese inscena la formula del film perfetto dando così vita ad un’opera godibile, sorretta da scenari incantevoli e da attori di primo piano (insieme a Colin Firth, un’eterea Emma Stone e una memorabile Eileen Atkins).
È innegabile che il papà di Zelig e di altre indimenticabili pellicole debba alla vecchia Europa l’incredibile stagione creativa di cui è tuttora protagonista e che ha avuto origine oramai dieci anni fa con il controverso “Match Point” (girato a Londra) ed è proseguita con le riprese di “Vicki Cristina Barcelona”, “To Rome with love”, “Midnight in Paris”.
Immutata la scelta di Allen di focalizzarsi su ambientazioni alto borghesi senza però rinunciare alla volontà di raccontare, seppur senza pretesa sociologica, l’aspirazione alla scalata sociale di soggetti dalle origini umili, spesso rappresentati come vittima dei loro vani desideri, bieche aspirazioni, futili vanità. È il caso di Nola, l’attricetta interpretata da Scarlett Johansonn in Match Point così come della povera Jasmine, interpretata dalla sconvolgente Cate Blanchett e protagonista di Blue Jasmine che, insieme a Basta che funzioni, rappresenta la breve parentesi americana all’interno del decennio d’ispirazione prettamente europea del regista newyorkese.
Ma è anche il caso della deliziosa medium americana Sophie Baker, incarnata da una deliziosa Emma Stone, incantevole truffatrice arruolata per mettere in crisi l’incredibile Wei Ling Soo, celeberrimo prestigiatore dalle fattezze cinesi, interpretato da un ispirato Colin Firth. L’attore, nei panni dell’iperrealista Stanley Crawford, dà vita ad un uomo in bilico tra la necessità di essere ancorato alla realtà e il dubbio; tra il sogno del possibile e la concretezza dell’immanente. Il fascinoso Stanley, lasciati i panni di Wei Ling Soo, si fa il medium attraverso il quale Allen dona al pubblico la sua riflessione sul sogno, la realtà, l’illusione, l’aldilà, consegnando allo spettatore riflessioni di una profondità immane, mascherate dalla finta leggerezza di atmosfere bon ton da fine Anni Venti che nulla lasciano trasparire delle profonde trasformazioni che invece nella vecchia Europa già si stavano realizzando. Il regista, probabilmente ispirato dalle atmosfere à la Grande Gatsby che già avevano incantato il pubblico in Midnight in Paris e molto prima con La rosa purpurea del Cairo, sembra essere ancora nel pieno della sua stagione creativa nonostante sia diventata oramai eclatante la disinvoltura con la quale Allen rimaneggia la sua opera in una sorta di continuo autorimando. La pensione è ben lontana dai pensieri del cineasta che in un’intervista per l’Espresso ha dichiarato: «Il lavoro è una grande distrazione. Se non stessi girando, me ne starei seduto a casa ossessionato dall’idea di quanto sia terribile la vita. Sono sempre in procinto di scrivere una nuova sceneggiatura, di promuovere un film o di realizzarne un altro. Sono stato fortunato nel riuscire a mantenere questo ritmo per la maggior parte della mia vita e non saprei come vivere in altro modo.
Girare film in Europa permette inoltre a me e alla mia famiglia di trascorrere estati in posti molto belli e interessanti… ho potuto facilmente trasferirmi a Londra o a Parigi quando non ero a mio agio a New York». Certo la città adagiata sull’east coast resta l’indiscusso amore del regista, lasciata solo per motivi di budget: «Se dipendesse da me – ha dichiarato- girerei sempre a New York. Ho continuato a lavorare in Europa perché ho ricevuto offerte di finanziamento per girare laggiù». Eppure, quest’ultima fatica sembra contraddire l’autore di Manhattan affermando che sebbene non siamo più di fronte alla genialità del guitto d’oltremanica con psicosi da uomo dell’età ultramoderna, immerso nella megalopoli ultrafrenetica del melting pot mai volutamente affrontato, il vecchio autore, perso nelle atmosfere da club jazz di inizio secolo, ha bisogno della vecchia Europa per raccontarsi o forse soltanto per ritrovare un’epoca di cui riconoscere il linguaggio e, di cui farne in una sorta di auto seduta psicologica, l’analisi.
autore: Michela Aprea