“Ieri c’era la super Luna. Io ero per le strade di Milano e la guardavo. Noi siamo fatti dell’80% di acqua e se la Luna può avere effetto sugli oceani, allora può avere effetto anche su di noi. Qualcuno ha dormito male? Qualcuno ha avuto mal di testa? Io. Se non abbiamo cura dell’acqua, ci sarà un’apocalisse ambientale su questo pianeta, la fine della specie umana, che forse meritiamo, visto che stiamo usando la Terra come bidone dell’immondizia. Quindi, quando moriremo perché non abbiamo più acqua, ci vedremo dall’altra parte, qualsiasi cazzo di posto sia. Ci vedremo in un universo parallelo. E sapete perché? Perché le anime gemelle non muoiono mai”. Così Brian Molko, il quarantaquattrenne frontman dei Placebo, introduce Soulmates never die che segue un omaggio a Leonard Cohen a palco vuoto e la proiezione del video di Every You Every Me, prima di cominciare sul serio con Pure Morning (brano che mancava da anni sui palchi), Loud Like Love e Jesus Son, l’ultimo singolo.
Questo è il ventesimo del tour celebrativo dei vent’anni, al Mediolanum Forum di Assago. Si capisce subito che sarà un concerto per i fan. “Welcome to our birthday party”. E cosa si fa a un compleanno? Si canta tanti auguri a te! Sesso? Perché no? Ma i Placebo hanno pensato a qualcosa di più trasgressivo. Tipo divertirsi. E che la festa cominci!
Molko non ha mai fatto mistero della sua ritrosia rispetto al portare sul palco i pezzi più commerciali, ma di recente aveva dichiarato che la scaletta per questo tour sarebbe stata pensata per dare ai fan quello che i fan vogliono. E i fan vogliono anche i vecchi Placebo degli anni ‘90, depressi e malinconici. E quei Placebo si sono regalati, senza riserve.
Chi conosce Brian Molko sa che non è mai stato troppo aperto col suo pubblico, ma ieri si è dato in modo assoluto: ha ringraziato, ha riso, si è raccontato, ha fatto del sarcasmo: “sentitevi liberi di perdervi il concerto per filmare e rivederlo a casa su un piccolo schermo, dove tutto sembrerà e suonerà da schifo”. Fair enough.
Il percorso sonoro alterna momenti di malinconia e baratro a pezzi più energici e coinvolgenti, come in Lazarus la cui parte strumentale di violino (di Fiona Brice nda) si triplica in durata – e si centuplica in intensità – rispetto alla versione studio. Molko non risparmia belle parole per chi condivide il palco con lui: i turnisti, ma soprattutto Stefan Olsdal (al basso, alla tastiera e ai cori). Commovente vedere i due lasciare il palco abbracciati, a testimonianza di come aver resistito a celebrità e ossessività dei fan, rehab di Molko, down creativi e abbandono da parte di tre batteristi non sia stato facile in questi vent’anni dalla nascita del progetto Placebo.
Il primo dei molteplici picchi di intensità massima è da legare al momento I know, pezzo che personalmente annovero tra i tre capolavori di sempre della band (insieme a Bruise Pristine e My Sweet Prince che, però, non hanno trovato spazio in questo live e a un altro pezzo, di cui vi racconto più giù). Il pezzo viene aperto da un’intro dolce. Poi esplode. Gli schermi sullo sfondo si tingono di nero, solo luci calde e soffuse a illuminare la scena. Molko pronuncia con voce straziata (e straziante), ogni singola parola dando fondo a qualsiasi riserva di energia vitale. Suda, si commuove. Si toglie gli ear monitors e osserva le persone: sembra guardarci negli occhi uno per uno. Fa cenno di “grazie” con la testa. Rimane a lungo in silenzio. Poi, su un rumore alieno di sottofondo, intona a cappella un ultimo, lungo, lento e commovente I know.
Il pubblico non urla nemmeno. Colpiti e affondati! Il momento viene subito alleggerito dai colori acidi dei visuals per Devil in the Details, in cui appaiono ritratti dei membri della band sdoppiati, un po’ demoniaci. Molko si esalta, si lascia pendere la chitarra alle spalle e si accarezza il corpo, mentre canta. In quel suo modo che sa essere sensuale nonostante la completa assenza di mascolinità nei movimenti e negli atteggiamenti, manifesto eterno della sua ambiguità sessuale. Segue l’onda acida e un po’ elettronica Space Monkey. Poi è il turno di Protect Me From What I Want che ricordo con nostalgia nella sua versione in francese. Sul palco si scatenano, Molko inveisce sulla chitarra, canta stravolgendo l’andamento originale del pezzo. Con una mano al cielo, sul finale, suona con pennate violente le corde della sua Goddess Fender Jazzmaster bianca e azzurra. Poesia. Si freme, perché tutti aspettano Without You I’m Nothing, pezzo che da sempre è tra i più amati dai fan dei Placebo (ma anche da quelli di Bowie). Questo capolavoro, infatti, nasce da una collaborazione con il Duca Bianco. Sugli schermi, un video in cui Bowie e un poco più che venticinquenne Molko cantano insieme in un backstage. (guarda quì).
Una testimonianza video di un lascito: l’eredità del compianto Dio Bowie trasmessa in un attimo al giovane belga, brit d’adozione, dalla personalità poliedrica, l’aspetto femmineo e l’ascendente incredibile. Proprio come Bowie. “Grazie Milano. E grazie David”. Silenzio. C’è bisogno di spezzare il ritmo, di saltare, di gioire. Di sudare. Così arriva For What It’s Worth, seguita da Slave to the Wage con le scene di gente incravattata, immobile che guarda in alto. It’s a race for rats to die, fa la canzone, a testimonianza della posizione ideale e politica di Molko rispetto al capitalismo. Non ci risparmia, a proposito, un visual con il faccione di Donald Trump su un box di sigarette. “Seriouslu harms you and others around you”, recita l’avviso sul pacchetto. Si impazzisce definitivamente con Special K, Song to Say Goodbye e The Bitter End. Una triade che, insieme alla performance di Twenty Years (completamente riarrangiata con una perenne e martellante mononota al piano che dura per tutto il pezzo, mentre dalle prime file si levano cartelli di buon compleanno) sono decisamente quei famosi momenti fatti per la gente. Il bis vede una vecchissima Teenage Angst, Nancy Boy (con Stefan che sull’intro innalza al cielo il suo basso multicolor, a manifestare il loro contributo contro l’omofobia) e Infra-Red, che ci fa sprofondare in una sorta di Matrix.
Non vogliamo che il concerto finisca, due ore non ci sono bastate. Una sorta di battito cardiaco a palco vuoto e luci blu, introduce Running Up That Hill, cover del bellissimo pezzo di Kate Bush, che chiude definitivamente questo live immenso, che ricorderemo come uno dei migliori degli ultimi anni a riscattare gli anni in cui Molko non riusciva a completare un live, a suonare per più di un’ora e l’ultimo, in Danimarca, in cui aveva dovuto interrompere il concerto.
Lo ricorderemo come il più emozionante. Per chi ama i Placebo. Per chi, come me, aveva cinque anni quando uscì il loro primo album. Per chi, come me, vent’anni dopo, ha la loro discografia completa nella collezione personale di dischi. Per chi, come me, ieri ha ricevuto un pacco regalo con tutte le emozioni esistenti, da tenere caro fino al prossimo live, perché dice Molko, di preoccupatevi se l’apocalisse ambientale non avviene prima del prossimo concerto. Promette “We will come back”. E noi ci fidiamo.
https://www.facebook.com/officialplacebo/
http://www.placeboworld.co.uk/
autrice: Daniela Minuti