I White Stripes non sono stati nè i migliori nè i primi; il blues non sempre è una faccenda da vecchi negri e campi di cotone (e Martin Scorsese ce lo ha dimostrato); il diavolo esiste (ed esce dalle casse del vostro hi-fi, non dagli auricolari dell’iPod); parlando di look, niente è più stiloso di pantaloni di pelle e stivaletti pitonati; si può suonare blues anche salendo in piedi su un Marshall valvolare piuttosto alto (se ci si riesce); a New York nei primi anni ’90 c’è stata una rivoluzione noise-blues-core capeggiata da un branco di tossici dai grandi futuri a nome Pussy Galore; per gli esiliati di Main Street che non hanno più niente da ascoltare; per i fantasmi del CBGB che non hanno più niente da ricordare; per chi non restava indifferente di fronte al sudore che colava sulle camice dorate di James Brown; per chi non ha mai scopato con una ragazza cattolica sul sedile posteriore di un’auto; per chi crede che sesso, lussuria, perversione e peccato non possano essere raccontati nei tre minuti di un rock’n’roll: è uscito un compendio dei primi dieci anni – i migliori – della John Spencer Blues Explosions!
Non la solita raccolta ‘deluxe’ per raggranellare un pò di quattrini ma il viatico per chi negli ultimi venti anni non si è accorto di essere vivo. Questo inumano concentrato di energie prevede tra le sue 22 pillole l’epilettica “Chicken Dog“, animale non contemplato neanche dai più fantasiosi bestiari medioevali, l’ingannevole soul psichedelico di “Magical Colors” dalla suadente andatura che vuole solo portarvi in camera da letto e non per dormire, “BellBottoms“, con i suoi eccellenti arrangiamenti d’archi come nella migliore black music che fu prima che uno dei soliti proclami autocitazionisti li zittisca a favore di una chitarra sporca di wah-wah; “History of Sex“, velocissima, convulsa e con voce che annaspa e affoga, decisamente anti-bacharachiana nella sua narrazione, “Leave Me Alone So I Can Rock Again“, che già nel titolo premette e promette le sue intenzioni proto-rock and roll alla Chuck Berry, “Shake ‘em on down“, intensissima nella sua rievocazione dei migliori Stones, quelli cattivi e sublimi dei primi settanta, con quell’armonica sotto che soffia continua, lamentosa ed ossessiva, “Wail“, con il solito giro mille volte sentito e strasentito ma mille volte più nuovo e potente, coinvolgente ed eterno.
Troppe per citarle tutte, mi autocensuro, ma sappiate che da qui non si esce innocenti ed immacolati, è tutto un continuo ‘uuh’, ‘ooh’, ‘aah’ sparato da un microfono che crede di essere un megafono; questo è un ‘disco maiale’: non si butta via niente.
Autore: A.Giulio Magliulo