Ci pensa uno striscione dagli spalti a ricordare al Boss che non tornava in Campania dal 1997, dai tempi del tour acustico di The Ghost of Tom Joad. E quindi era logico che i fans fossero affamati: e il Boss, come al solito, non li delude, nonostante la vergogna dello spostamento di location all’ultimo minuto (dai giardini della Reggia di Vanvitelli al Palamaggiò cattedrale nel deserto: va bene proteggere le opere d’arte, ma lo si poteva decidere al momento della vendita dei biglietti e non una settimana prima del concerto, e comunque se continuiamo così in Campania resteranno a suonare solo Gigi d’Alessio e compagni) e la suspance relativa alla riuscita dal vivo di questa parentesi folk che il boss si è concesso con le cover di Pete Seeger. Ma niente resiste all’energia immortale del Bruce internazionale: nel mondo solo artisti enormi come Springsteen sono in grado di instaurare un rapporto così diretto con il proprio pubblico.
È difficile da capire, ma l’uomo sul palco è contemporaneamente anche sotto al palco.
E poi, tutti gli vogliono bene, proprio bene, come ad un amico di lunga data, e lo si percepisce durante tutto il concerto. Se, ad esempio, ti chiede un po’ di silenzio per fare Devils and dust da solo con la chitarra sul palco, concedi il tuo silenzio ma soprattutto prendi a cuore la questione e potresti litigare con chiunque emetta un suono in quel momento. Sei pronto a fucilare una mosca.
Il clima è una travolgente spirale fatta di emozioni semplici ma di impatto stravolgente, scaturite non per forza dai suoi brani, eseguiti tra l’altro in modo impeccabile (“e che te lo dico a fare, Donnie”, per dirlo con Al Pacino in Donnie Brasco), sono sguardi, gesti, la sua presenza non è per nulla fatta unicamente di chitarra e voce, né tantomeno di quelle strabilianti capacità da intrattenitore affermato, anche perché sembra quasi che non si esibisca, anzi potremo dire tranquillamente che il Boss non si esibisce, punto; e perché dovrebbe, quando la gente che lo segue oramai lo conosce per quello che è? Gli basta essere lui, semplicemente Bruce, semplicemente il Boss.
Dal punto di vista tecnico il concerto è indiscutibile, ci mancherebbe altro! , oltre tutto l’acustica era ottima, indefinitamente apprezzabile la regia in tempo reale.
Alla ricerca del “pelo nell’uovo” si perviene insomma alla conclusione ufficiale che “il pelo non c’è” (e non ci poteva essere: se non l’avete ancora capito, stiamo parlando di Bruce Springsteen, uno dei pochi miti viventi della musica rock mondiale): si inizia subito, di gran carriera, con John Henry e Jesse James, ed è già un canto all’unisono col pubblico, che non si fa trovare impreparato sulle nuove canzoni. Seguono “Old Dan Tucker”, “Mary don’t you weep” e “Erie Canal”, intervallate da “Growing Up”, praticamente una perla considerando che si tratta del primo singolo in carriera del boss. E nel frattempo il pubblico ha già potuto assaporare l’ensemble di 17 musicisti, tra trombe, violini, chitarre acustiche, contrabbasso, pianoforte, cori e immancabile banjo, per una perfetta orchestra country-folk, che segue il boss nella sua esibizione con puntualità, grinta, divertimento, ironia, non facendo rimpiangere la E-street Band.
Il concerto entra nel vivo con “Jacob’s Ladder”: e qui l’intero palazzetto si alza a ballare e saltare, e non la smetterà più: c’è solo il tempo per commuoversi con la toccante versione di “Devils and Dust”, seguita da una emozionantissima Mrs McGrath. Poi si ritorna a ballare: “Pay me my money down, long time comin’ ” alternate a “My city Of Ruins”, per concludere con una stupenda cover di “When the Saints go marchin’ ” in versione ballad, accompagnano il pubblico, ormai in delirio, verso la fine del concerto, dopo ben due ore ininterrotte di musica suonata ai livelli dell’ inimitabile energia del Boss. Ci sarà molto da aspettare, in Campania, per un altro concerto di questo livello. A quando la prossima, Bruce?
Autore: Francesco Postiglione & Alessandro Esposito
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